ADRIANO PROSPERI
La Repubblica , 13/12/2013
In questo centenario machiavelliano ci sono molti
incontri d' occasione con l' autore del Principe: quello di Adriano
Sofri è un incontro necessitato. Il suo caso è diverso da quelli degli
studiosi e delle istituzioni che accordano alle scadenze secolare i
loro piani. Quasi di furia, nei luoghi e nei mesi d' estate che
Machiavelli dedicò alla febbrile stesura del Principe, a poca distanza
da lui Adriano Sofri ha scritto questo libro ( Machiavelli, Tupac e la
Principessa, Sellerio). Uno dei suoi, inconfondibile, con un ordine
sostanziale nell' apparente disordine di un pensiero liberamente
divagante: un confronto, un bilancio, quasi un dialogo, ma non pacifico
né distaccato, una risposta a quella lettera di Niccolò a Francesco
Vettori del 10 dicembre 1513, qui riportata in appendice insieme a una
bibliografia aggiornata, esauriente (vi manca solo l' edizione del
Principe a cura di Gennaro Sasso che la Treccani ha accuratamente
pubblicato per dimenticarsela poi nei suoi magazzini). Quella lettera è
il campione più celebre delle tante altre lettere machiavelliane di
negozie di relazioni di un uomo che amava stare tra i pericoli e la
fatica e al pensiero di starsene a palazzo rispondeva (nel 1509): «Io
non sarei quivi buono a nulla e morrèvi disperato». Anche Adriano Sofri
ha scelto di stare tra i pericoli e la fatica lasciandosi alle spalle
giovanissimo l' allora tranquillo e garantito sentiero degli studi: che
erano cominciati non a caso proprio da Machiavelli, il tema della sua
prima prova quando diciottenne entrò alla Scuola Normale come
apprendista storico. Quel che poi gli accadde è noto: e così, "post
res perditas", il dialogo mai interrotto con Machiavelli ha preso forma
di libro in un' estate trascorsa nella sua casa a due passi dall'
Albergaccio. Ci si accostaa questo libro comea ogni altro di Adriano
Sofri: con grande curiosità, sapendo che sarà un' occasione da non
perdere, ricca delle tante cose che lui conosce per lunga esperienza di
vicende e di persone, ma anche per una sua curiosità di lettore
onnivoro e una raffinata cultura libresca - quasi come diceva di sé
Machiavelli nella dedica del Principe: «lunga esperienza delle cose
moderne e una continua lezione delle antiche». Questo dialogo con
Machiavelli pone fin dall' inizio la condizione fondamentale: intendere
con precisione quello che ha detto. Per esempio, il significato che
aveva per lui la parola Fortuna. Era uomo di piccola fortuna, nota
Adriano Sofri: nacque povero e imparò più presto a stentare che a
godere. Entrò al servizio dello stato fiorentinoa 29 anni, dalla porta
di servizio, vi esercitò compiti minori, ne fu estromesso brutalmente
al primo cambio di regime. La Fortuna la immaginava come una donna, -
nuda, bellissima, inafferrabile come quella raffigurata qui in
copertina. L' appello celebre del capitolo XXV incita a un corpo a
corpo con la Fortuna. Uno stupro, dice Sofri: che intanto puntualizza
qualcosa su cui in genere si sorvola, abbagliati dall' invito
petrarchesco alla lotta tra virtù e furore. Alla fortuna Machiavelli
assegnava il controllo sulla maggioranza delle azioni nostre, lasciando
all' arbitrio una parte minore ma quasi uguale - così almeno nella
pagina più tonificante del Principe. Ma quando Machiavelli ragiona
della realtà effettuale sua e di altri le azioni del libero arbitrio
crollano. La Fortuna, ci ricorda, ha in mano una carta decisiva in
mano: la morte. Contro la Fortuna il duca Valentino aveva preparato
argini robusti: ma quando muore Alessandro VI, di peste, ecco che il
figlio si ammala anche lui nel momento decisivo dell' elezione del
nuovo papa e tutto è perduto. Anche per Machiavelli venne la perdita
di tutto e a stento salvò la vita. E la prova fu dura, tanto da
richiedergli di dare a se stesso prima che ad altri la misura di sé,
del suo valore nell' arte dello stato. Ecco perché nacque quell'
opuscolo, secondo Sofri. Ci sono eredi di quella Fortuna nella
letteratura italiana, dominata dalla Provvidenza manzoniana? Sì, una,
risponde Sofri: la Natura di Leopardi, la gigantessa impassibile che dà
la morte all' islandese delle Operette morali. Ma intanto c' era
stata anche una donna in carne e ossa, una donna di potere che alla
fortuna teneva testa e aveva la stoffa per diventare una possibile
incarnazione del Principe: era Caterina Sforza, la signora di Forlì che
ai nemici che la ricattavano con la vita dei suoi figli mostrò dall'
alto della rocca quali fossero gli attributi con cui poteva farsene
altri di figli. Machiavelli l' aveva incontrata, ma non concepiva una
principessa come liberatrice d' Italia. Lasciamo ai lettori di scoprire
chi fosse Tupac e perché entra in questa storia. Ma dobbiamo almeno
segnalare la parte in cui entra la politica, quella reale di allora e
quella di oggi: qui è come se Machiavelli leggesse noi prestandoci le
sue parole e imponendoci di paragonare il suo orizzonte col nostro: ci
si chiede per esempio cosa significhi oggi il ritorno ai princìpi, per
l' Italia con la sua Costituzione e per il Vaticano col suo papa
Francesco,o se sia vero che la macchina umana è sempre la stessa e cosa
è accaduto quando si è cercato di modellare l' uomo - per esempio col
tentativo su larga scala di Pol Pot. Questa parte è un andirivieni tra
l' allora e l' oggi, un bilancio che fa emergere la disperazione di una
politica che non ha più campo, può solo nascondere dietro alti
paraventi l' orizzonte vero, la realtà di una globalizzazione che ci
espropria dei poteri territoriali e tradizionali: una politica che non è
e non può essere ridotta a scienza e nemmeno ad arte perché di mezzo
c' è sempre la scelta di chi governa (la famiglia o lo stato) e resta
sempre l' imprevedibile possibilità che la bomba venga fatta esplodere.
Contraddizioni terribili, che davanti all' anonimato delle potenze
globali delle finanze fanno rinascere l' appello alla sovranità
nazionale anche da parte di chi ieri esaltava l' internazionalismo
proletario. Si pensi allo scenario delle guerre e dei genocidi, oggi
visibili da tutti dallo schermo di casa propria, per cui nessuno può
dire che non sapeva e non immaginava, come accadde con Auschwitz. E
intanto, la natura, quella leopardiana così simile alla fortuna, è
stata dominata, stuprata: ma questa vittoria minaccia di essere l'
ultima sconfitta e la fine dell' umanità. Una fra le tante domande
inquiete e inquietanti di un libro vivo, vivissimo.
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