sábado, 23 de janeiro de 2010

1750) A obsessao totalitaria da esquerda brasileira (1)

A obsessão totalitária
Fábio Portela
Revista Veja, edição 2149 - 27 de janeiro de 2010

Censurar a imprensa e impedir o fluxo de ideias no Brasil
é a única bandeira genuinamente comunista que sobrou aos petistas

Um observador ingênuo pode não entender a obsessão de petistas, manifestada desde o momento zero do governo Lula, de abolir a liberdade de expressão no Brasil. Afinal, em sete anos de administração do país, alguns fizeram enormes avanços pessoais e coletivos. Aumentaram o patrimônio, passaram a beber bons vinhos e a vestir-se com apuro. A política econômica é modelo até para os países avançados e as conquistas sociais fazem inveja a reformadores de todos os matizes ideológicos. Destoam desse rol de avanços a diplomacia megalonanica e a inconformidade com o livre trânsito de ideias no país. O próximo ataque organizado à liberdade de expressão se dará em março, com a Segunda Conferência Nacional de Cultura (CNC). Apesar do nome pomposo, ninguém irá lá para discutir cultura. Os petistas vão, mais uma vez, tentar encontrar uma forma de ameaçar a liberdade de imprensa e obrigar revistas, jornais, sites e emissoras de rádio e TV a apenas veicular notícias, filmes e documentários domesticados, chancelados pelos soviets (conselhos) petistas e reverentes à ideologia de esquerda.

O evento é a continuação por outros meios da batalha pela implantação da censura à imprensa no Brasil. Isso começou em agosto de 2004, com a iniciativa, abortada, de criar um Conselho Federal de Jornalismo (CFJ). Nos últimos meses foram feitas mais duas tentativas. Uma delas na Conferência Nacional de Comunicação (Confecom). A outra com o PNDH-3, o Programa Nacional de Direitos Humanos. O que o CFJ, a CNC e o PNDH-3 têm em comum? Todos embutem a criação de um tribunal para censurar, julgar e punir jornalistas e órgãos de comunicação que desobedeçam às normas governamentais. É um figurino de atraso.

Por que essa obsessão não se dissipa? Primeiro, porque ela é a única bandeira que sobrou às esquerdas cujas raízes podem ser traçadas ao seu berço comunista no século XIX. A censura à imprensa é uma relíquia esquerdista, um bicho da era stalinista guardado em cápsula de âmbar e cujo DNA os militantes sonham ainda retirar e com ele repovoar seu parque jurássico. Todas as outras bandeiras foram perdidas. A do humanismo foi dinamitada pela revelação, em 1956, dos crimes contra a humanidade perpetrados por Stalin. A da eficiência econômica e a da justiça social ruíram com a queda do Muro de Berlim, em 1989. Sobrou a bandeira da supressão da voz dos que discordam deles. Mesmo isso não pode ser feito com a dureza promulgada por Lenin ("Nosso governo não aceitaria uma oposição de armas letais. Mas ideias são mais letais que armas.").

O maior ideólogo da censura à imprensa, cujo nome sai com a facilidade dos perdigotos da boca dos esquerdistas brasileiros, é o italiano Antonio Gramsci (1891-1937). Como a revolução pelas armas se tornou inviável, Gramsci sugeriu a via do lento envenenamento ideológico da cultura, do idioma e do pensamento de um país. É o que tentam fazer os conselhos, conferências e planos patrocinados pelo PT. É neles que se dá a alquimia gramsciana. Ela começa pela linguagem. A implantação da ditadura com o fechamento do Congresso é vendida como "democracia direta"; a censura aparece aveludada como "controle da qualidade jornalística"; a abolição da propriedade privada dilui-se na expressão "novos anteparos jurídicos para mediar os conflitos de terra". Tudo lindo, pacífico, civilizado e modernizador. Na aparência. No fundo, é o atalho para a servidão. Thomas Jefferson neles, portanto: "...entre um governo sem imprensa e uma imprensa sem governo, fico com a segunda opção".

Um tema, duas visões
No século XVIII, o futuro presidente americano Thomas Jefferson já enxergava a liberdade de imprensa como um dos pilares da democracia. No século XX, o bolchevique Lenin inaugurou a doutrina esquerdista que vê no jornalismo independente uma ameaça a ser combatida

"Se eu tivesse de decidir entre ter um governo sem jornais e ter jornais sem um governo, eu não hesitaria nem por um momento antes de escolher a segunda opção."
Thomas Jefferson, em 1787

"Dar à burguesia a arma da liberdade de imprensa é facilitar e ajudar a causa do inimigo. Nós não desejamos um fim suicida, então não a daremos."
Vladimir Lenin, em 1912

sexta-feira, 22 de janeiro de 2010

1749) Niccolò Machiavelli, il vero


NOTE CRITICHE
a cura di Laura Barberi

Il Principe fu scritto da Niccolò Machiavelli (1469-1527) tra il luglio e il dicembre del 1513, nella villa (soprannominata "L'Albergaccio") di S. Andrea in Percussina presso San Casciano, dove Machiavelli si era ritirato in seguito alla caduta della Repubblica fiorentina e al ritorno dei Medici a Firenze. Nel 1512, infatti, in seguito al ritiro dei francesi dall'Italia, la signoria medicea fu restaurata a Firenze e Machiavelli, che era stato funzionario della repubblica per tutti i quattordici anni della sua esistenza, venne prima licenziato, poi accusato di aver preso parte ad una congiura contro i Medici, quindi arrestato e in seguito confinato all'Albergaccio. Per il resto della sua vita egli non riuscirà più a ricoprire alcun incarico pubblico, malgrado i suoi tentativi e la sua inesauribile passione politica. All'inattività forzata, comunque, Machiavelli non si rassegnò mai e, non potendo agire direttamente sulla realtà sociale e politica del suo paese, si concentrò sulla stesura di opere di carattere storico e politico, nel tentativo di influenzare tramite esse i potenti del suo tempo.

L'occasione della stesura de Il Principe fu data dalle voci che circolavano sulle intenzioni di papa Leone X di creare uno Stato per i nipoti Giuliano e Lorenzo de' Medici: voci che spinsero Machiavelli a interrompere la stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e a scrivere un più breve trattato dove esporre le convinzioni maturate in tanti anni di frequentazioni ed esperienze politiche. Al trattato egli premise una dedica a Lorenzo de' Medici, anche se solo nel 1516, sempre nella speranza di poter tornare protagonista delle vicende sia fiorentine sia italiane, anche se non sarà così.

L'opera uscì postuma nel 1532 ed è composta di XXVI capitoli tra loro logicamente collegati e fortemente interrelati. La chiara struttura consente di individuare i vari "blocchi" di capitoli dedicati ad un unico argomento e i nessi tra i vari "blocchi". I primi undici capitoli descrivono come si crea un principato: dopo aver elencato, nel primo capitolo, i vari tipi di principato possibile, Machiavelli analizza nei successivi capitoli tali diversi Stati: i principati ereditari e quelli nuovi (con o senza nuovi territori annessi al principato già esistente), con particolare attenzione dedicata - capp. VI-X - al principato del tutto nuovo che è quello che più interessa all'autore visto che, secondo lui, solo un nuovo e forte principato potrebbe rimediare allo stato miserevole dell'Italia dell'epoca, coacervo di staterelli sempre in balia delle potenze estere. L'undicesimo capitolo è dedicato al singolare tipo di principato rappresentato dallo Stato della Chiesa.

Il secondo gruppo di capitoli, dall'XI all'XIV, tratta del problema delle milizie mercenarie e degli eserciti propri: requisito indispensabile per la sopravvivenza degli Stati è, difatti, secondo Machiavelli, il possesso di milizie proprie. Seguono poi i capp. XV-XXIII dedicati alla figura del principe, alle virtù che deve possedere, ai comportamenti da adottare nei vari frangenti. Sono questi i capitoli più discussi perché è proprio qui che Machiavelli più si discosta dalla tradizione individuando come comportamenti virtuosi solo quelli che risultano più utili al mantenimento dello Stato, dal che deriva quel "capovolgimento dei criteri etici tradizionali" che ha creato tanto scalpore. L'autore è cosciente di sostenere tesi mai prima sostenute da altri, ma il suo scopo è la massima fedeltà alla realtà delle cose, ed ecco che quindi si scaglia, nel capitolo quindicesimo, contro tutti quei filosofi e quegli storici che nel passato hanno descritto repubbliche e principati mai esistiti; egli si propone invece di andare dritto alla "realtà effettuale", di scrivere cosa utile a chi la intenda. Di conseguenza, per il principe meglio essere parsimonioso che liberale, per non dissipare così le ricchezze dello Stato e gravare con forti tasse sui sudditi; meglio essere crudele che pietoso perché è meglio essere temuto che amato ma poco rispettato; meglio non mantenere la parola data se risulta conveniente: nelle sue azioni il principe deve guardare soltanto al fine.

Gli ultimi tre capitoli si ricollegano alla situazione dell'Italia nel momento in cui Machiavelli scriveva: l'autore passa ad analizzare direttamente le cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati (cap. XXIV); il rapporto tra virtù e fortuna (cap. XXV) se cioè sia possibile per un principe "virtuoso" resistere ai repentini cambiamenti della fortuna; infine il capitolo conclusivo, il XXVI, che è un'esortazione ad un principe italiano a creare un nuovo forte Stato che possa difendere la penisola dalle invasioni straniere, liberando l'Italia dal dominio di francesi e spagnoli. La carica emotiva di quest'ultimo capitolo lo differenzia dal resto del trattato, dominato dal rigore logico e dall'analisi critica, ma va detto che, tra le righe, la passione del Machiavelli affiora un po' in tutta l'opera.

L'elemento che più colpisce ne Il Principe è anche l'aspetto che più ha fatto discutere: la netta separazione tra la sfera politica e la sfera morale. L'agire del principe deve essere guidato solo da considerazioni di ordine politico, ogni altra preoccupazione, di carattere morale o religioso, è accantonata. "Il 'dover essere', vale a dire l'anelito ad una più alta vita, cede il posto all''essere', cioè alla considerazione della realtà quale è, senza preoccupazione di riformarla" (Chabod); il bene supremo è solo quello che garantisce il benessere dello Stato e solo in base a questo bisogna agire. È questo il credo di Machiavelli: solo in base al principio di utilità si può giudicare l'azione di un capo di Stato.

Una simile filosofia nasce da alcune premesse ritenute dall'autore fiorentino verità incontrovertibili: la malvagità della natura umana, l'immutabilità di tale natura e quindi la necessità di comportarsi tenendo conto di questa amara realtà. Oggi è possibile dibattere e dissentire, magari, dalla visione pessimistica della realtà che aveva Machiavelli; è possibile interrogarsi, ad esempio, sull'estremo realismo che diventa a volte sinonimo di passiva accettazione della realtà senza desiderio di trasformarla; oppure criticare, come già fece il De Sanctis, il fatto che il popolo sia considerato alla stregua di materia bruta: è stato detto che ne Il Principe ci sono i diritti dello Stato, ma non i diritti dell'uomo. Ampie sono le possibilità di discussione su un'opera così complessa e che si propone un fine così ambizioso come quello di essere una sorta di guida della classe dirigente del Cinquecento italiano, ma l'importante è sempre tenere ben in mente lo specifico clima storico e culturale nel quale maturò la filosofia di Machiavelli; aver presente quale fosse la gravità della situazione italiana nei giorni in cui egli proponeva una possibile soluzione a quel perenne belligerare tra mille fazioni che, non va dimenticato, avrebbe tormentato la nostra penisola per secoli.

1748) Carreira diplomática: salário e promoção

Um curioso, identificado apenas como Batista me coloca as seguintes questões:

"Saudações, estive lendo o seu blog e um post antigo me chamou a atenção. No post referente a FAQ sobre a carreira diplomatica, gostaria de saber qual o salario maximo a que chega um diplomata em territorio nacional. Visto que em diversas pesquisas na internet nao pude descobrir o valor maximo; gostaria tambem de saber se a ascensão nos cargos diplomaticos dar-se-ão por tempo, como no militarismo, ou se são dadas por merito e trabalhos no exterior, por exemplo.
Grato por seu tempo."

Bem, Batista, o Correio Braziliense de hoje, ou de ontem, informa que o salário mais alto (certamente não o meu) no Itamaraty é algo superior a R$ 24.000,00, ou seja, próximo do salário de um ministro do Supremo (mas parece que estes já mereceram um aumento, coitados, ganham tão pouco... isso sem falar das mordomias, carro, auxilio residência, subsídio para toga e outras bondades, o que deve totalizar um salário equivalente maior do que 35 mil mensais, maior do que um membro da Suprema Corte dos EUA, coitados, tão pobres, comparados com os nossos).
Não sei se esse é o salário do Ministro de Estado, que não precisa ser um diplomata. Provavelmente é o salário do Secretário-Geral, que precisa, sim, ser diplomata.
Suponho que os ministros de primeira classe (embaixadores) estejam ganhando perto de 17 mil líquidos (ou seja descontado o IR), mas não tenho certeza.
Eu, como ministro de segunda classe, ganho bem menos do que isso, mas é porque não tenho gratificação nenhuma, por não ter atualmente um cargo definido (ao qual vem associado um DAS).
No início da carreira, um Secretário deve estar ganhando algo como 11 mil brutos, talvez 9 mil liquidos, ou um pouco menos.
Já se ganhou menos; antigamente tínhamos salários miseráveis em Brasília (e razoáveis no exterior).
Parece que o Lula gosta da gente. Deve ter seus motivos...

Quanto a ascensão, ela se dá tanto por antiguidade, mas também por tempo de serviço no exterior. Ninguém, a partir de Segundo Secretário, pode ser promovido sem contar tempo de exterior...

Espero ter satisfeito a sua curiosidade.
Tudo isso, ou seja, o salário de todos os funcionários públicos, deveria ser uma informação transparente (menos os "por fora", que podem existir, vá lá saber...).

1747) Carta a Nicolau Maquiavel

Como epílogo a meu livro
O Moderno Príncipe (Maquiavel Revisitado)

Carta a Niccolò Machiavelli

Magnífico embaixador florentino, Niccolò Machiavelli,
Permita-me, nesta carta, chamá-lo assim: ambasciatore. Sei que, na república de Florença, seu posto foi o de segretario, ou seja, aquele capaz de guardar os segredos de Estado; sei, também, que lhe foram encomendadas várias missões diplomáticas, algumas junto a outros reinos ou principados da Itália, outras junto a soberanos de outros países, os mesmos reinos responsáveis, em outras épocas, por tantas desgraças que se abateram sobre o seu país, dividido, ocupado e humilhado. Depois de alguns anos de ostracismo, durante os quais você aproveitou para escrever a sua obra mais famosa, Il Príncipe, a signoria di Firenze ainda lhe deu algumas legazioni, mesmo se não mais di Stato. Mas isto me parece o bastante para chamá-lo pelo título legítimo de ambasciatore fiorentino.
Na carta escrita em 10 de dezembro de 1513, tão pronto colocado o ponto final ao De Principatibus, dirigida ao seu amigo Francisco Vettori, embaixador de Florença junto ao papa, em Roma, você lhe relatou como passava os dias no seu sítio de Sant’Andrea-in-Percussina: caçando passarinhos e monitorando o corte de lenha pela manhã, o que lhe dava algum sustento, mas sempre levando um livro consigo: “Dante ou Petrarca, ou um desses poetas menores, Tíbulo, Ovidio; leio aquelas suas amorosas paixões, e aqueles seus amores lembram-me os meus; deleito-me algum tempo nestes pensamentos”. Uma caminhada até a hospedaria o informava sobre as notícias da cidade, ocasião para ouvir muitas coisas e anotar os “vários gostos e fantasias dos homens”. Depois do almoço com a família – com os poucos alimentos “que esta pobre vila e este pequeno patrimônio comportam” –, você retornava à hospedaria, onde passava a tarde jogando cartas com o estalajadeiro, um açougueiro, um moleiro e dois padeiros.
Chegada a noite, porém, você se recolhia ao seu escritório, retirava a roupa do dia, coberta de “barro e lodo”, e vestia roupas “dignas de rei e da corte”, e assim, vestido condignamente, você penetrava “nas antigas cortes dos homens do passado onde, por eles recebido amavelmente, nutro-me daquele alimento que é unicamente meu, para o qual eu nasci; não me envergonho ao falar com eles e perguntar-lhes das razões de suas ações”. Os reis e príncipes do passado lhe respondiam em toda urbanidade e, assim, você passava com eles horas e horas, sem qualquer tédio, esquecido de todas as aflições, sem temer a pobreza ou a morte: “eu me integro inteiramente neles”. Dessas “conversações” é que resultou este seu “opúsculo”, no qual você discutiu de que espécie são os principados, como são adquiridos, como se mantêm e porque são perdidos.
Devo dizer-lhe, Niccolò, que eu também passei muitas noites na sua companhia, relendo o seu “opúsculo” e várias outras obras suas, o que muito me agradou. Se, hoje, as cruentas ações dos príncipes e condottieri do Renascimento, reportadas em suas obras, parecem “definitivamente” afastadas do cenário político moderno, a essência da arte de conquistar e de manter o Estado, tal como magnificamente sintetizada neste seu livro, me parece inteiramente atual. O discurso elaborado por você, em 1513, transpira atualidade, se não totalmente, pelo menos em quatro quintos dos argumentos políticos. Isto se deve, como você sabe, a que a natureza dos homens e suas motivações políticas não mudaram muito desde a sua época, o que ratifica, portanto, a pertinência do seu Príncipe.
Foi isto que me motivou, Niccolò, a realizar, não um pastiche, mas uma adaptação de sua obra imortal aos dias de hoje, posto que ela se mantém aplicável em relação à maior parte dos conceitos empregados na política contemporânea. Aparentemente, os “príncipes” da atualidade não costumam mais mandar envenenar seus adversários – mesmo se alguns serviços especiais possam fazê-lo –, nem comandam pessoalmente execuções com adagas, em plena celebração da missa dominical. Mas creio que, à exceção desses detalhes, o resto do seu racconto se aplica plenamente, senão fielmente.
O resultado dessas noites de diálogo à distância está agora pronto, Niccolò, e aqui lhe apresento este meu Príncipe. Sei que os seus últimos anos foram muito difíceis, caro embaixador, e se por acaso quiser discutir a questão do copyright, estou disposto a fazê-lo.
Não sei exatamente quanto lhe devo, pelos empréstimos não negociados da estrutura mesma do seu pequeno livro e das suas idéias principais, ainda que eu tenha reescrito os argumentos, de maneira a adequá-los a estes tempos. Os nossos são de ações políticas talvez mais pacíficas, mas certamente não mais elevadas moralmente. De uma coisa esteja certo: os direitos morais lhe pertencem inteiramente e, em função disso, estou pronto a lhe render homenagem e manifestar o preito de gratidão intelectual que lhe é inteiramente devido.
Em um argumento central, contudo, nos afastamos um do outro, Niccolò, mas ele me parece essencial, na perspectiva do meu próprio pensamento. Esta sua obra magnífica foi concebida, pensada e está dirigida ao candidato a príncipe em tempos “bárbaros”, de inexistência de instituições e de poderes constituídos e separados; todo o seu discurso se coloca primordialmente do ponto de vista do Estado, que necessitava ser construído e fortalecido. Esta postura era claramente compreensível e aceitável no quadro da Itália de então, destruída pelas suas próprias elites e ocupada por poderes estrangeiros, sem que naquele tempo surgissem príncipes valorosos, dispostos a libertá-la do jugo das potências mais poderosas da Europa.
Tal não parece ser mais o caso hoje em dia, Niccolò, pelo menos não em relação à grande parte dos principados contemporâneos: todos eles já dispõem de Estados fortes, talvez em excesso. Eles drenam os recursos dos seus súditos, ou cidadãos, em proporção mais do que aceitável ou admissível para os padrões econômicos de um capitalismo que se pretende basicamente liberal, e não mais estatizante, como ainda há poucas décadas. O sistema globalizado, que é o nosso, reduziu ainda mais as possibilidades de concentração excessiva das decisões econômicas no Estado, que hoje são deixadas ao próprio mercado.
O meu ponto de vista, Niccolò, é, em conseqüência, não o do Estado, mas sim o da sociedade, do cidadão pagador de impostos, que deseja que a política esteja a serviço, não do próprio Estado, mas essencialmente voltada para a construção de condições que possam apoiar a prosperidade contínua da comunidade e do próprio principado. O mundo mudou significativamente desde a sua época, Niccolò. Depois de Westfália e da Carta das Nações Unidas, processos foram construídos para evitar, ou pelo menos minimizar, o tipo de conduta daqueles príncipes inescrupulosos do seu tempo, que invadiam, ao seu bel-prazer, principados estrangeiros, para deles se apossar e explorá-los de maneira vil, em total arbitrariedade e desrespeito ao direito das gentes.
O problema principal das sociedades organizadas não está mais, portanto, na construção de Estados, e sim na manutenção de regras de conduta entre povos e nações civilizadas. Isto ultrapassa as fronteiras dos Estados, Niccolò, e tem a ver com os direitos dos cidadãos, em primeiro lugar com a democracia política e os direitos humanos. Quer me parecer, Niccolò, que os piores atentados a esses princípios centrais da vida civilizada têm origem, hoje, na ação de príncipes tão violentos como os da sua época. Mas estes têm a protegê-los as cláusulas de Westfália e da citada Carta, sobre a soberania absoluta dos Estados e a não-interferência nos seus assuntos internos. Sei que não é fácil de resolver este problema, Niccolò, pois ainda hoje existem Estados poderosos que pretendem impor sua vontade aos mais fracos. Mas tenho certeza de que a próxima fronteira dos avanços civilizatórios se coloca bem mais no plano dos indivíduos do que no âmbito dos Estados.
Esta é a minha perspectiva política, Niccolò, que difere talvez um pouco da sua, por razões inteiramente compreensíveis. Mas desejo confirmar-lhe, expressamente, que aprendi muito com os seus próprios escritos e com os relatos e análises que li da sua vida e do seu pensamento. Você escreveu ao seu amigo Vettori, com a esperança de que o seu “opúsculo” – na verdade uma das maiores obras do pensamento político moderno, aquela que criou, verdadeiramente, a ciência da política – fosse lido mais amplamente, dizendo-lhe que a obra condensava quinze anos empenhados “no estudo da arte do Estado”. Sua carta terminava dizendo que ninguém deveria duvidar da sua fidelidade no serviço do Estado: “da minha lealdade é testemunho a minha pobreza”.
Estou certo disso, Niccolò, e devo dizer-lhe, pessoalmente, que, depois de muitos anos dedicados ao serviço do Estado e da sociedade, eu também posso afirmar fidelidade a certas idéias, princípios e valores. Acredito, mesmo, que eles se parecem muito com os seus, Niccolò, e é por isso que eu pretendi prestar-lhe uma homenagem por meio deste Príncipe, que se pretende em comunhão espiritual e que se situa inteiramente na tradição intelectual que você inaugurou, caro ambasciatore.

Um seu admirador
Refúgio dos bibliófilos, 11 de setembro de 2007
(494º aniversário da redação d’O Príncipe)

Sumário completo do livro neste link.

1746) Prefácio a "O Moderno Príncipe (Maquiavel revisitado)

Transcrevo o prefácio que preparei ao meu mais recente livro, que está sendo lançado virtualmente neste sábado 23.01.2010:

O Moderno Príncipe: Maquiavel revisitado
(Rio de Janeiro: Freitas Bastos, edição eletrônica, 2009, 191 p.; ISBN: 978-85-99960-99-8); R$ 12,00; disponível online neste link: http://freitasbas.lojatemporaria.com/o-moderno-principe.html

Prefácio

Este livro foi escrito por um proscrito. Explico: O Príncipe, original de 1513, foi escrito por Nicolau Maquiavel quando ele se encontrava em completo ostracismo, depois que a conquista da Toscana pelos espanhóis recolocou no comando de Florença, em 1512, a família dos Médici. Como escreveu Delio Cantimori, no verbete sobre o florentino que ele preparou para a Storia della Letteratura Italiana (quinto volume, da Garzanti), “nonostante l’ingegno, l’acutezza e la dottrina che gli venivan riconosciuti, il Machiavelli non fu mai chiamato agli uffici maggiori della repubblica fiorentina che egli servi dal 1498 al 1512”.1 De fato, depois de ter servido durante quase três lustros à República da sua cidade natal (1469), e de ter desempenhado missões diplomáticas da mais alta responsabilidade – em 1500, em Pisa, para resolver uma rebelião de soldados mercenários; logo em seguida junto ao reino de Luís XII da França, retornando ali mais três vezes, entre 1504 e 1511; em 1502 junto ao duque Valentino, César Bórgia, em Urbino e Sinigaglia; em 1503 e 1505, em Roma; em 1507, junto ao Imperador Maximiliano, do Sacro Império Romano Germânico –, Maquiavel nunca mais retornou ao seu cargo de segretario, a despeito de ter desempenhado outras missões diplomáticas nos últimos anos de sua vida.
Como o próprio Maquiavel escreveu, em torno de 1518-1519, na apresentação a outro
texto seu dessa fase de desterro, os Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ele havia colocado em seus escritos toda a substância do que sabia e do que tinha aprendido ao longo de uma vida dedicada à prática política e às leituras constantes em torno “delle cose del mondo”, ou, como transcreve Cantimori, “per ‘lunga pratica’ della vita política, ‘continua lettura’ della storia política”.2 Condenado ao confinamento por um ano, em 1512, mas não reabilitado depois disso, Maquiavel se retirou na sua vila Albergascio, perto de San Casciano, no Val di Pesa, e ali, amargurado por um injusto isolamento, soube reagir ao afastamento forçado da política ativa que lhe impuseram, colocando no papel suas reflexões sobre a prática da política, sobre a arte da guerra e a propósito dos ensinamentos que se podiam retirar do itinerário dos grandes homens e da evolução, entre auge e declínio, das sociedades da antiguidade clássica. Por uma dessas ironias da história, ele veio a morrer no mesmo ano em que a república foi restabelecida em Florença, em 1527.

Este Moderno Príncipe também condensa tudo o que me foi possível aprender ao longo de uma vida dedicada à atenta observação delle cose del mondo, ao estudo das coisas da política e das artes diplomáticas, assim como no aproveitamento de continue letture, em todas as áreas das ciências humanas e disciplinas afins, ou seja, em tudo aquilo que interessa ao homem enquanto ser político. O livro também foi escrito em condições de relativo isolamento, pelo menos da diplomacia prática, que exerci de modo contínuo de 1977 a 2003, depois de já ter enfrentado meu próprio desterro, ainda que semi-voluntário, entre 1970 e 1977, na fase mais dura do regime militar que tutelou o Brasil de 1964 a 1985. Meu novo ostracismo involuntário permitiu, ao lado do exercício de lides acadêmicas que sempre permearam a atividade profissional, longas noites de leitura, intensas reflexões sobre as transformações do mundo contemporâneo e do Brasil atual, como também propiciou a produção de escritos a respeito da conjuntura política e sobre a história diplomática, divulgados em revistas especializadas ou em livros por mim publicados.
De todos os livros que escrevi – no mais das vezes voltados para as relações internacionais e a política externa do Brasil –, o que mais reflete o meu pensamento político e aquele de que mais gosto, A Grande Mudança (Códex, 2003), é o que menos obteve sucesso de público, permanecendo relativamente desconhecido (talvez pelo fato de, quando do lançamento, me encontrar no exterior). Em todo caso, este livro retoma algumas das reflexões ali conduzidas pela primeira vez e amplia meu aprendizado nas artes da política por meio de uma retomada linear do texto que se encontra, a justo título, no panteão das grandes obras do pensamento universal. Quase quinhentos anos depois, como para muitos clássicos, a constatação se impõe por si só: Maquiavel continua atual!
Este “Maquiavel revisitado” segue fielmente o roteiro traçado nos últimos meses de 1513 pelo pensador e diplomata florentino. A estrutura dos capítulos permanece idêntica: apenas troquei “Itália” por “nação”, em dois capítulos finais, seja para tornar a reflexão mais universal, seja para fazê-la aplicável a uma outra grande nação de tradição latina. A temática e a substância de cada um dos capítulos também permanecem relativamente similares: os problemas que angustiavam o segretario de há meio milênio parecem rigorosamente os mesmos, com pequenas adaptações de detalhe ou de linguagem. Alguma novidade nisso? Provavelmente não!
As referências e o tratamento dos problemas são, contudo, inteiramente atuais, ainda que se tenha optado por um estilo e um linguajar deliberadamente “caducos”, como forma de manter um “parentesco espiritual” com a obra de meu predecessor diplomático do Renascimento. O que eu fiz, sim – e nisso me cabe o copyright, ainda que eu deva conceder os moral rights ao florentino –, foi reescrever totalmente o seu “manual de política prática” no sentido daquilo que eu penso deva determinar, hoje, a política moderna: o compromisso democrático; o cumprimento das “regras do jogo”, como diria um outro filósofo da política, Norberto Bobbio; a transparência na administração da coisa pública; a correção no manejo do
pubblico denaro e, sobretudo, a honestidade intelectual, que para mim é o critério básico de qualquer ação social, independentemente da área na qual ela se insira.
Maquiavel escreveu o seu pequeno “manual” como uma espécie de guia de conduta
para os governantes, mas ele se coloca bem mais do ponto de vista do Estado do que do ponto de vista dos cidadãos. Talvez se pudesse dizer, sem ostentação ou pretensões exageradas, que meu pequeno manual pretende ser uma espécie de guia de conduta para os governados e ele se coloca, mais bem, do ponto de vista dos indivíduos, que constituem, afinal de contas, o destino final de toda a ação política.
Revisitar Maquiavel é sempre angustiante, como já escreveu certa vez Raymond Aron, uma vez que as relações entre a moral e a ação política, entre a ética e a eficácia, entre os fins e os meios, estão sempre sendo colocadas na balança de nossas escolhas fundamentais. As minhas escolhas ficam transparentes em cada parágrafo do meu texto, mesmo quando a “racionalidade econômica” parece predominar sobre a “justiça social”, ou quando os valores morais são confrontados aos procedimentos políticos, que sempre evidenciam, como todos sabem, o eterno dilema entre as convicções pessoais e os resultados práticos, no plano da ação social. As minhas opções estão postas claramente nas páginas que seguem e a primeira delas, ouso repetir, é justamente a honestidade intelectual. Este princípio fundamental compensa qualquer ostracismo.
Gostaria, por fim, de agradecer a todos aqueles que me ajudaram, voluntariamente ou não, na finalização deste livro, em primeiro lugar no processo de sua revisão. Ele tinha sido iniciado em meados de 2003, como o segundo de uma série de “clássicos revisitados” – tendo o primeiro sido uma atualização do Manifesto Comunista de 1848, aos 150 anos de sua edição original – mas, desde então, tinha ficado parado em virtude de uma carregada agenda de obrigações profissionais e acadêmicas. Inesperadamente, encontrei o tempo que me faltava em meados de 2007: sou reconhecido, portanto, também aos que me permitiram dispor de condições para finalizá-lo.

Paulo Roberto de Almeida
Brasília, 25 de setembro de 2007

Notas:
1 Cf. Delio Cantimori, “Introduzione”, in Niccolò Machiavelli, Il Príncipe e le opere politiche, Milão: Garzanti, 1976, p. xi.
2 Idem, a partir de C. Pinsin, Sul testo del Machiavelli. La prefazione alla prima parte dei “Discorsi”, in Atti dell’Academia delle Scienze di Torino, vol. 94 (1959), disp. 2, Torino, 1960, p. 506-518; cf. “Introduzione”, op. cit. supra, p. xi.

Ver sumário completo neste link.

1745) Minha dedicatoria ao Maquiavel

Muitos livros, não todos, contem dedicatórias, ou seja, uma palavra gentil, uma demonstração de reconhecimento, a quem fez por merecer: mestres, mulher, filhos, gato, cachorro, papagaio, deus, whoever...
No caso do "meu" Maquiavel, minha dedicatória é a ele mesmo, na companhia de quem passei dias e noites agradáveis, refletindo sobre o poder, o caráter efêmero da glória (aquela coisa: sic transit gloria mundi...), enfim, dialogando mentalmente com meu mentor espiritual, enquanto eu reescrevia o seu Príncipe, adaptado para os tempos modernos.
Abaixo, minha dedicatória, no livro agora lançado:

Dedicatória
Al Signore Niccolò Machiavelli, segretario diplomatico della Repubblica di Firenze, banito dal suo posto per motivi di cambiamenti politiche, uno suo ammiratore.

Caro Niccolò,
Escrevo esta dedicatória quase quinhentos anos depois que você dirigiu a sua, num livro de título praticamente igual a este, a um senhor de nobre linhagem, um dos Médici, que estava, naquele mesmo momento, recuperando o poder em Florença, cidade à qual você serviu fielmente durante longos anos. Sei que a sua dedicatória foi escrita em uma fase muito difícil da sua vida, quase dramática, quando você tentava, na verdade, recuperar os seus títulos, cargos e funções, dos quais tinha sido afastado, por motivos de baixa política, eu até diria por ciúmes, dada a inveja que os novos donos do poder tinham do seu valor e das suas qualidades de estadista.
De minha parte, ao abrir um livro de espírito e motivações similares ao seu, não vou dedicá-lo a um representante de qualquer família ou grupo dirigente. Não pretendo seguir o seu exemplo; para ser mais exato, não necessito fazê-lo, uma vez que minha vida e o meu trabalho se desenvolvem em tempos mais amenos, comparativamente aos barbari tempii nos quais você tinha de viver. Por isso, e em total legitimidade, dedico esta obra a você mesmo, Niccolò, pois ela, na verdade, tudo lhe deve, muito na forma e bastante do conteúdo.
Não é difícil deduzir de sua obra, e de sua vida, que você foi um genial pensador político, um diplomata dedicado, um cidadão honrado, cumpridor dos seus deveres, um atento estudioso dos livros antigos (como eu sou, aliás), um pai de família extremoso, como a poucos conheci, em uma atribulada carreira, feita de intensas leituras, freqüentes viagens e muitas reflexões (estou aqui falando de nós dois, ambi due). Como disse um admirador seu, que me precedeu, “il suo merito principale sta nell’avere, con metodo sicuro, creato una nuova scienza politica, fondandola sulla storia e sulla esperienza” (Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi; 3a. ed.; Milano: Ulrico Hoepli, vol. II, 1913, p. 466).
No Príncipe, você trata basicamente da monarquia, de um regime conduzido por um chefe exclusivo, quase despótico, no limite da tirania. Nos seus Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, você se ocupa, sobretudo, da república, de como ela deveria ser, nos tempos antigos e modernos. Em ambas as obras, o que está, na verdade, em jogo é a autonomia do Estado e a sua capacidade de implementar medidas visando ao bem comum, à sobrevivência da independência e da soberania do Estado em primeiro lugar, para em seguida velar pelo bem estar dos súditos, ou dos cidadãos, conforme o caso. Muitos se perguntaram se, em cada uma dessas obras, aquele que se expressava por meio de argumentos rápidos, cortantes, como no Príncipe, ou através de longas digressões históricas, como nos Discursos, era um republicano ou um cortesão: creio poder dizer que se tratava de um verdadeiro patriota, de um homem que amava a liberdade, a unidade e a independência de sua pátria, que era, antes mesmo da “sua” república florentina, a Itália em seu conjunto.
Você tinha o hábito, que eu também partilho, de apoiar-se na história para tratar de casos presentes. Não apenas no Príncipe, mas também nos Discursos, você se referia aos homens de Estado da antiguidade para ilustrar suas lições de estadismo, da arte da política, no mais alto sentido desta palavra. Mas você não pretendia tratar, de verdade, da situação corrente da Itália, por mais calamitosa que esta fosse, na luta para assegurar autonomia nacional e independência em relação às potências da época, a França e a Espanha, em primeiro lugar. Por certo, lhe entristecia ver as repúblicas e principados da Itália desunidos, combatendo entre si, enquanto hordas de mercenários e soldados estrangeiros penetravam em suas cidades, saqueando palácios, espoliando os burgueses, roubando os camponeses e perpetrando toda sorte de abusos.
Na verdade, ao escrever tantas páginas memoráveis nos Discursos e no Príncipe, você estava pensando, sobretudo, no futuro da Itália. Daí não hesitar você em recomendar soluções que a muitos podem ter aparecido, e ainda hoje aparecem, como isentas de qualquer sentido moral. O que você pretendia, e espero estar bem interpretando suas intenções, era assegurar a autonomia plena do Estado, de maneira que este pudesse defender a honra nacional e o bemestar dos cidadãos (sim, de preferência a súditos, pois eu sei que você privilegiava a república, sobre a monarquia, mas achava, malgrado os inconvenientes, que esta podia ser uma solução temporária a uma situação de caos incontrolável). Daí sua tolerância com regimes próximos do autoritarismo – sei que a linguagem antiga se referia à tirania – desde que o príncipe, em situação de poder e de comando, pudesse ou soubesse garantir pax, ordo et concordia, que para você eram essenciais na condução dos assuntos públicos.
Claro, o ideal, para você e para todos os cidadãos de bem –, ainda que convertidos
temporariamente em súditos – seria que o principado ou a república, ameaçados de desagregação, fossem conquistados e governados por algum sapientissimus princeps, cercado de conselheiros hábeis – como você mesmo –, até que os próprios governados pudessem resolver a questão, com a legítima eleição dos seus chefes, de preferência em regime republicano, aberto aos méritos e não apenas aos clãs familiares tradicionais. Esse ideal não pôde ser alcançado na sua Florença, e ainda menos em outras partes da Itália, até vários séculos depois que você nos legou suas páginas memoráveis sobre a arte de conquistar, de manter e de governar os principados.
Você bem que se esforçou para que isso pudesse ocorrer, até violentando parcialmente o seu pensamento, pois que aparentemente disposto a servir um nobre de natureza despótica, desde que ele soubesse, pelo menos, lutar pela independência e autonomia da Itália, que ele pudesse libertá-la dos bárbaros que a assolavam continuamente, nesses tempos de transição entre o puro regime oligárquico dos tempos antigos e as novas formas de representação política dos citadinos organizados. Quando, em 1512, depois da batalha de Ravena, os Médici recuperaram o poder em Florença, a sua sorte muda radicalmente. Em lugar de ser recompensado pelo brilhante trabalho diplomático a serviço de cidade toscana, você, por resolução tomada em 7 de novembro de 1512, foi privado de toda e qualquer função oficial.
Segundo os termos do decreto então assinado, seus direitos e encargos de segretario foram abolidos: cassaverunt, privaterunt et totaliter amoverunt. Mais do que você, foi a cidade e o país que perderam com o seu ostracismo, as suas férias involuntárias, tanto mais duros, l’ozio forzato e l’allontanamento, que você era, do testemunho de todos, un uomo attivissimo, capaz de desempenhar os complexos encargos da sua cancelleria fiorientina com competência invulgar e em tempo exíguo. Cansado da sua solidão, da espera em vão por um posto que não veio jamais, você se entregou, con grandissimo ardore, como diz Villari, allo studio. Em conseqüência, você se refugiou na sua
vila de província, dimenticava la sua miseria, e passou a escrever, segundo esse seu admirador, alcuni di quelle pagine di scienza politica, che resero per tutti i secoli immortale il suo nome (Villari, op. cit., vol. II, p. 270 e 212). Assim, no espaço de poucos meses, em 1513, emergiu Il Principe e tomou forma, ainda que sua redação se estendesse por muitos anos mais, os seus Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
Por todas essas razões, e outras mais, cabe-me dedicar esta modesta obra, que muito deve, como já disse, às suas páginas imortais, a você, Niccolò, mesmo à distância de quase quinhentos anos e em circunstâncias, talvez, muito diferentes daquelas nas quais você foi levado a colocar no papel suas reflexões e ensinamentos de uma vida inteira dedicada à coisa pública. No seu tempo, a corrupção política era generalizada, na Itália mais do que em qualquer outra parte da Europa, talvez porque ali houvesse mais recursos a serem pilhados por líderes políticos e religiosos sem escrúpulos. A moral cristã, que deveria teoricamente prevalecer, era na verdade completamente abandonada na vida pública. Não só no seu tempo, Niccolò...
Daí sua intenção de fundar a política, tanto a ciência quanto a sua prática, sobre uma nova moral, de caráter laico, civil, republicano. Devo reconhecer que, a despeito de muitas frustrações na vida diplomática, nos negócios e na política, você o conseguiu, e de forma brilhante: hoje, os seus escritos converteram-se em leitura obrigatória, tanto para os estudiosos quanto, sobretudo, para os praticantes da política, muito embora estes últimos nem sempre façam bom uso dos seus ensinamentos, que eles tomam pelo lado mais simplista possível.
A queda da República de Florença foi uma desgraça pessoal para você, mas talvez tenha sido uma grande fortuna para todos nós, porque o exílio forçado o levou a escrever estas páginas imortais. Se você tivesse permanecido na cancelleria fiorentina, não teríamos dos seus escritos que as cartas de legação e os ofícios diplomáticos, de estilo talvez aborrecido e, em todo caso, circunstanciais e estritamente conjunturais. Ao contrário, a partir do sabático involuntário que lhe impuseram, podemos agora dispor de suas idéias e reflexões de maior escopo conceitual e de larga amplitude intelectual. O seu infortúnio pessoal e a ruína da Itália nos valeram as mais belas páginas de ciência política que foram concebidas desde a antiguidade clássica e, provavelmente, até os dias de hoje. Quanto aos seus algozes, Niccolò, eles estão, em grande medida, esquecidos.
Esta obra, em particular, corresponde a um esforço de riordinamento politico generale de que a Itália muito necessitava, naquela época, e que talvez outros países ainda necessitem, hoje em dia. A Reforma, iniciada por Lutero, também fez bem aos países católicos, pois que obrigou-os a corrigir os aspectos mais corruptos e venais da política e da religião naquele período. Você preferiu afastar a religião e o poder dito espiritual do esforço de reconstituição da política e da formação do Estado moderno, o que considero basicamente correto. Nos tempos que correm, a política é essencialmente laica, muito embora muitos procurem explorar a religião para seus fins particulares. Creio, porém, que a política necessita, como na sua época, de um rientro morale que muito beneficiaria as instituições e os costumes. A sua virtu,
não era a virtude cristã, e sim a coragem e a energia de um líder político no esforço de construir sobre bases sólidas, mas nem por isso menos éticas, a administração dos homens e das coisas, em prol do bem-estar comum.
Portanto, meu caro segretario della repubblica fiorentina, à qual você serviu, durante 15 anos, com grandissimo zelo e costanza, sinta-se homenageado por esta obra que pretende, justamente, prestar-lhe um modestíssimo tributo pessoal, como prova de meu apreço por sua rara inteligência e por seu alto valor moral.

Refúgio dos bibliófilos, aos 494 anos da redação da obra do mestre.

(http://www.pralmeida.org/01Livros/2FramesBooks/95maquiavelrevisitado.html)

1744) Maquiavel tropeçou no link: refazendo o convite...

Bem, eu havia feito um convite anteriormente, para o lançamento virtual de meu livro de política moderna (como se estivesse dialogando com Maquiavel, o que convenhamos não seria nada mau), mas acontece que o convite enviado pela editora apresentou um problema de linkagem, justamente na palavra "chat", o que impediria alguém (como me impediu, ao fazer um teste nesta sexta-feira) de conectar-se à URL específica que funciona como plataforma para o chat.
Sem pretender ser insistente, portanto, mas apenas corrigindo uma falha técnica (como diriam radialistas e âncoras de programas audio-visuais), refaço agora o convite, com o link explicitamente indicado, e linkado...


A Editora Freitas Bastos e Paulo Roberto de Almeida convidam para o lançamento virtual do livro (editado em forma eletrônica):

O Moderno Príncipe (Maquiavel revisitado)
(Rio de Janeiro: Freitas Bastos, edição eletrônica, 2009, 191 p.; ISBN: 978-85-99960-99-8); R$ 12,00;

disponível online neste link.

O lançamento, virtual, sob a forma de chat com o autor, será feito no próximo sábado, 23 de janeiro, das 17 as 18hs, neste link:
http://xat.com/EBooksFreitasBastos?p=0&ss=6

Mais informacoes sobre o livro neste link.

PS: Quem ainda assim tiver dúvidas, tem um outro link que fornece o passo a passo para se conectar (vou testar também), pois devem ser as FAQs ou um Idiot's Guide to Chat for Everyone...
Neste link: http://www.freitasbastos.com.br/chat/passo_a_passo.html

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