sexta-feira, 22 de janeiro de 2010

1749) Niccolò Machiavelli, il vero


NOTE CRITICHE
a cura di Laura Barberi

Il Principe fu scritto da Niccolò Machiavelli (1469-1527) tra il luglio e il dicembre del 1513, nella villa (soprannominata "L'Albergaccio") di S. Andrea in Percussina presso San Casciano, dove Machiavelli si era ritirato in seguito alla caduta della Repubblica fiorentina e al ritorno dei Medici a Firenze. Nel 1512, infatti, in seguito al ritiro dei francesi dall'Italia, la signoria medicea fu restaurata a Firenze e Machiavelli, che era stato funzionario della repubblica per tutti i quattordici anni della sua esistenza, venne prima licenziato, poi accusato di aver preso parte ad una congiura contro i Medici, quindi arrestato e in seguito confinato all'Albergaccio. Per il resto della sua vita egli non riuscirà più a ricoprire alcun incarico pubblico, malgrado i suoi tentativi e la sua inesauribile passione politica. All'inattività forzata, comunque, Machiavelli non si rassegnò mai e, non potendo agire direttamente sulla realtà sociale e politica del suo paese, si concentrò sulla stesura di opere di carattere storico e politico, nel tentativo di influenzare tramite esse i potenti del suo tempo.

L'occasione della stesura de Il Principe fu data dalle voci che circolavano sulle intenzioni di papa Leone X di creare uno Stato per i nipoti Giuliano e Lorenzo de' Medici: voci che spinsero Machiavelli a interrompere la stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e a scrivere un più breve trattato dove esporre le convinzioni maturate in tanti anni di frequentazioni ed esperienze politiche. Al trattato egli premise una dedica a Lorenzo de' Medici, anche se solo nel 1516, sempre nella speranza di poter tornare protagonista delle vicende sia fiorentine sia italiane, anche se non sarà così.

L'opera uscì postuma nel 1532 ed è composta di XXVI capitoli tra loro logicamente collegati e fortemente interrelati. La chiara struttura consente di individuare i vari "blocchi" di capitoli dedicati ad un unico argomento e i nessi tra i vari "blocchi". I primi undici capitoli descrivono come si crea un principato: dopo aver elencato, nel primo capitolo, i vari tipi di principato possibile, Machiavelli analizza nei successivi capitoli tali diversi Stati: i principati ereditari e quelli nuovi (con o senza nuovi territori annessi al principato già esistente), con particolare attenzione dedicata - capp. VI-X - al principato del tutto nuovo che è quello che più interessa all'autore visto che, secondo lui, solo un nuovo e forte principato potrebbe rimediare allo stato miserevole dell'Italia dell'epoca, coacervo di staterelli sempre in balia delle potenze estere. L'undicesimo capitolo è dedicato al singolare tipo di principato rappresentato dallo Stato della Chiesa.

Il secondo gruppo di capitoli, dall'XI all'XIV, tratta del problema delle milizie mercenarie e degli eserciti propri: requisito indispensabile per la sopravvivenza degli Stati è, difatti, secondo Machiavelli, il possesso di milizie proprie. Seguono poi i capp. XV-XXIII dedicati alla figura del principe, alle virtù che deve possedere, ai comportamenti da adottare nei vari frangenti. Sono questi i capitoli più discussi perché è proprio qui che Machiavelli più si discosta dalla tradizione individuando come comportamenti virtuosi solo quelli che risultano più utili al mantenimento dello Stato, dal che deriva quel "capovolgimento dei criteri etici tradizionali" che ha creato tanto scalpore. L'autore è cosciente di sostenere tesi mai prima sostenute da altri, ma il suo scopo è la massima fedeltà alla realtà delle cose, ed ecco che quindi si scaglia, nel capitolo quindicesimo, contro tutti quei filosofi e quegli storici che nel passato hanno descritto repubbliche e principati mai esistiti; egli si propone invece di andare dritto alla "realtà effettuale", di scrivere cosa utile a chi la intenda. Di conseguenza, per il principe meglio essere parsimonioso che liberale, per non dissipare così le ricchezze dello Stato e gravare con forti tasse sui sudditi; meglio essere crudele che pietoso perché è meglio essere temuto che amato ma poco rispettato; meglio non mantenere la parola data se risulta conveniente: nelle sue azioni il principe deve guardare soltanto al fine.

Gli ultimi tre capitoli si ricollegano alla situazione dell'Italia nel momento in cui Machiavelli scriveva: l'autore passa ad analizzare direttamente le cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati (cap. XXIV); il rapporto tra virtù e fortuna (cap. XXV) se cioè sia possibile per un principe "virtuoso" resistere ai repentini cambiamenti della fortuna; infine il capitolo conclusivo, il XXVI, che è un'esortazione ad un principe italiano a creare un nuovo forte Stato che possa difendere la penisola dalle invasioni straniere, liberando l'Italia dal dominio di francesi e spagnoli. La carica emotiva di quest'ultimo capitolo lo differenzia dal resto del trattato, dominato dal rigore logico e dall'analisi critica, ma va detto che, tra le righe, la passione del Machiavelli affiora un po' in tutta l'opera.

L'elemento che più colpisce ne Il Principe è anche l'aspetto che più ha fatto discutere: la netta separazione tra la sfera politica e la sfera morale. L'agire del principe deve essere guidato solo da considerazioni di ordine politico, ogni altra preoccupazione, di carattere morale o religioso, è accantonata. "Il 'dover essere', vale a dire l'anelito ad una più alta vita, cede il posto all''essere', cioè alla considerazione della realtà quale è, senza preoccupazione di riformarla" (Chabod); il bene supremo è solo quello che garantisce il benessere dello Stato e solo in base a questo bisogna agire. È questo il credo di Machiavelli: solo in base al principio di utilità si può giudicare l'azione di un capo di Stato.

Una simile filosofia nasce da alcune premesse ritenute dall'autore fiorentino verità incontrovertibili: la malvagità della natura umana, l'immutabilità di tale natura e quindi la necessità di comportarsi tenendo conto di questa amara realtà. Oggi è possibile dibattere e dissentire, magari, dalla visione pessimistica della realtà che aveva Machiavelli; è possibile interrogarsi, ad esempio, sull'estremo realismo che diventa a volte sinonimo di passiva accettazione della realtà senza desiderio di trasformarla; oppure criticare, come già fece il De Sanctis, il fatto che il popolo sia considerato alla stregua di materia bruta: è stato detto che ne Il Principe ci sono i diritti dello Stato, ma non i diritti dell'uomo. Ampie sono le possibilità di discussione su un'opera così complessa e che si propone un fine così ambizioso come quello di essere una sorta di guida della classe dirigente del Cinquecento italiano, ma l'importante è sempre tenere ben in mente lo specifico clima storico e culturale nel quale maturò la filosofia di Machiavelli; aver presente quale fosse la gravità della situazione italiana nei giorni in cui egli proponeva una possibile soluzione a quel perenne belligerare tra mille fazioni che, non va dimenticato, avrebbe tormentato la nostra penisola per secoli.

1748) Carreira diplomática: salário e promoção

Um curioso, identificado apenas como Batista me coloca as seguintes questões:

"Saudações, estive lendo o seu blog e um post antigo me chamou a atenção. No post referente a FAQ sobre a carreira diplomatica, gostaria de saber qual o salario maximo a que chega um diplomata em territorio nacional. Visto que em diversas pesquisas na internet nao pude descobrir o valor maximo; gostaria tambem de saber se a ascensão nos cargos diplomaticos dar-se-ão por tempo, como no militarismo, ou se são dadas por merito e trabalhos no exterior, por exemplo.
Grato por seu tempo."

Bem, Batista, o Correio Braziliense de hoje, ou de ontem, informa que o salário mais alto (certamente não o meu) no Itamaraty é algo superior a R$ 24.000,00, ou seja, próximo do salário de um ministro do Supremo (mas parece que estes já mereceram um aumento, coitados, ganham tão pouco... isso sem falar das mordomias, carro, auxilio residência, subsídio para toga e outras bondades, o que deve totalizar um salário equivalente maior do que 35 mil mensais, maior do que um membro da Suprema Corte dos EUA, coitados, tão pobres, comparados com os nossos).
Não sei se esse é o salário do Ministro de Estado, que não precisa ser um diplomata. Provavelmente é o salário do Secretário-Geral, que precisa, sim, ser diplomata.
Suponho que os ministros de primeira classe (embaixadores) estejam ganhando perto de 17 mil líquidos (ou seja descontado o IR), mas não tenho certeza.
Eu, como ministro de segunda classe, ganho bem menos do que isso, mas é porque não tenho gratificação nenhuma, por não ter atualmente um cargo definido (ao qual vem associado um DAS).
No início da carreira, um Secretário deve estar ganhando algo como 11 mil brutos, talvez 9 mil liquidos, ou um pouco menos.
Já se ganhou menos; antigamente tínhamos salários miseráveis em Brasília (e razoáveis no exterior).
Parece que o Lula gosta da gente. Deve ter seus motivos...

Quanto a ascensão, ela se dá tanto por antiguidade, mas também por tempo de serviço no exterior. Ninguém, a partir de Segundo Secretário, pode ser promovido sem contar tempo de exterior...

Espero ter satisfeito a sua curiosidade.
Tudo isso, ou seja, o salário de todos os funcionários públicos, deveria ser uma informação transparente (menos os "por fora", que podem existir, vá lá saber...).

1747) Carta a Nicolau Maquiavel

Como epílogo a meu livro
O Moderno Príncipe (Maquiavel Revisitado)

Carta a Niccolò Machiavelli

Magnífico embaixador florentino, Niccolò Machiavelli,
Permita-me, nesta carta, chamá-lo assim: ambasciatore. Sei que, na república de Florença, seu posto foi o de segretario, ou seja, aquele capaz de guardar os segredos de Estado; sei, também, que lhe foram encomendadas várias missões diplomáticas, algumas junto a outros reinos ou principados da Itália, outras junto a soberanos de outros países, os mesmos reinos responsáveis, em outras épocas, por tantas desgraças que se abateram sobre o seu país, dividido, ocupado e humilhado. Depois de alguns anos de ostracismo, durante os quais você aproveitou para escrever a sua obra mais famosa, Il Príncipe, a signoria di Firenze ainda lhe deu algumas legazioni, mesmo se não mais di Stato. Mas isto me parece o bastante para chamá-lo pelo título legítimo de ambasciatore fiorentino.
Na carta escrita em 10 de dezembro de 1513, tão pronto colocado o ponto final ao De Principatibus, dirigida ao seu amigo Francisco Vettori, embaixador de Florença junto ao papa, em Roma, você lhe relatou como passava os dias no seu sítio de Sant’Andrea-in-Percussina: caçando passarinhos e monitorando o corte de lenha pela manhã, o que lhe dava algum sustento, mas sempre levando um livro consigo: “Dante ou Petrarca, ou um desses poetas menores, Tíbulo, Ovidio; leio aquelas suas amorosas paixões, e aqueles seus amores lembram-me os meus; deleito-me algum tempo nestes pensamentos”. Uma caminhada até a hospedaria o informava sobre as notícias da cidade, ocasião para ouvir muitas coisas e anotar os “vários gostos e fantasias dos homens”. Depois do almoço com a família – com os poucos alimentos “que esta pobre vila e este pequeno patrimônio comportam” –, você retornava à hospedaria, onde passava a tarde jogando cartas com o estalajadeiro, um açougueiro, um moleiro e dois padeiros.
Chegada a noite, porém, você se recolhia ao seu escritório, retirava a roupa do dia, coberta de “barro e lodo”, e vestia roupas “dignas de rei e da corte”, e assim, vestido condignamente, você penetrava “nas antigas cortes dos homens do passado onde, por eles recebido amavelmente, nutro-me daquele alimento que é unicamente meu, para o qual eu nasci; não me envergonho ao falar com eles e perguntar-lhes das razões de suas ações”. Os reis e príncipes do passado lhe respondiam em toda urbanidade e, assim, você passava com eles horas e horas, sem qualquer tédio, esquecido de todas as aflições, sem temer a pobreza ou a morte: “eu me integro inteiramente neles”. Dessas “conversações” é que resultou este seu “opúsculo”, no qual você discutiu de que espécie são os principados, como são adquiridos, como se mantêm e porque são perdidos.
Devo dizer-lhe, Niccolò, que eu também passei muitas noites na sua companhia, relendo o seu “opúsculo” e várias outras obras suas, o que muito me agradou. Se, hoje, as cruentas ações dos príncipes e condottieri do Renascimento, reportadas em suas obras, parecem “definitivamente” afastadas do cenário político moderno, a essência da arte de conquistar e de manter o Estado, tal como magnificamente sintetizada neste seu livro, me parece inteiramente atual. O discurso elaborado por você, em 1513, transpira atualidade, se não totalmente, pelo menos em quatro quintos dos argumentos políticos. Isto se deve, como você sabe, a que a natureza dos homens e suas motivações políticas não mudaram muito desde a sua época, o que ratifica, portanto, a pertinência do seu Príncipe.
Foi isto que me motivou, Niccolò, a realizar, não um pastiche, mas uma adaptação de sua obra imortal aos dias de hoje, posto que ela se mantém aplicável em relação à maior parte dos conceitos empregados na política contemporânea. Aparentemente, os “príncipes” da atualidade não costumam mais mandar envenenar seus adversários – mesmo se alguns serviços especiais possam fazê-lo –, nem comandam pessoalmente execuções com adagas, em plena celebração da missa dominical. Mas creio que, à exceção desses detalhes, o resto do seu racconto se aplica plenamente, senão fielmente.
O resultado dessas noites de diálogo à distância está agora pronto, Niccolò, e aqui lhe apresento este meu Príncipe. Sei que os seus últimos anos foram muito difíceis, caro embaixador, e se por acaso quiser discutir a questão do copyright, estou disposto a fazê-lo.
Não sei exatamente quanto lhe devo, pelos empréstimos não negociados da estrutura mesma do seu pequeno livro e das suas idéias principais, ainda que eu tenha reescrito os argumentos, de maneira a adequá-los a estes tempos. Os nossos são de ações políticas talvez mais pacíficas, mas certamente não mais elevadas moralmente. De uma coisa esteja certo: os direitos morais lhe pertencem inteiramente e, em função disso, estou pronto a lhe render homenagem e manifestar o preito de gratidão intelectual que lhe é inteiramente devido.
Em um argumento central, contudo, nos afastamos um do outro, Niccolò, mas ele me parece essencial, na perspectiva do meu próprio pensamento. Esta sua obra magnífica foi concebida, pensada e está dirigida ao candidato a príncipe em tempos “bárbaros”, de inexistência de instituições e de poderes constituídos e separados; todo o seu discurso se coloca primordialmente do ponto de vista do Estado, que necessitava ser construído e fortalecido. Esta postura era claramente compreensível e aceitável no quadro da Itália de então, destruída pelas suas próprias elites e ocupada por poderes estrangeiros, sem que naquele tempo surgissem príncipes valorosos, dispostos a libertá-la do jugo das potências mais poderosas da Europa.
Tal não parece ser mais o caso hoje em dia, Niccolò, pelo menos não em relação à grande parte dos principados contemporâneos: todos eles já dispõem de Estados fortes, talvez em excesso. Eles drenam os recursos dos seus súditos, ou cidadãos, em proporção mais do que aceitável ou admissível para os padrões econômicos de um capitalismo que se pretende basicamente liberal, e não mais estatizante, como ainda há poucas décadas. O sistema globalizado, que é o nosso, reduziu ainda mais as possibilidades de concentração excessiva das decisões econômicas no Estado, que hoje são deixadas ao próprio mercado.
O meu ponto de vista, Niccolò, é, em conseqüência, não o do Estado, mas sim o da sociedade, do cidadão pagador de impostos, que deseja que a política esteja a serviço, não do próprio Estado, mas essencialmente voltada para a construção de condições que possam apoiar a prosperidade contínua da comunidade e do próprio principado. O mundo mudou significativamente desde a sua época, Niccolò. Depois de Westfália e da Carta das Nações Unidas, processos foram construídos para evitar, ou pelo menos minimizar, o tipo de conduta daqueles príncipes inescrupulosos do seu tempo, que invadiam, ao seu bel-prazer, principados estrangeiros, para deles se apossar e explorá-los de maneira vil, em total arbitrariedade e desrespeito ao direito das gentes.
O problema principal das sociedades organizadas não está mais, portanto, na construção de Estados, e sim na manutenção de regras de conduta entre povos e nações civilizadas. Isto ultrapassa as fronteiras dos Estados, Niccolò, e tem a ver com os direitos dos cidadãos, em primeiro lugar com a democracia política e os direitos humanos. Quer me parecer, Niccolò, que os piores atentados a esses princípios centrais da vida civilizada têm origem, hoje, na ação de príncipes tão violentos como os da sua época. Mas estes têm a protegê-los as cláusulas de Westfália e da citada Carta, sobre a soberania absoluta dos Estados e a não-interferência nos seus assuntos internos. Sei que não é fácil de resolver este problema, Niccolò, pois ainda hoje existem Estados poderosos que pretendem impor sua vontade aos mais fracos. Mas tenho certeza de que a próxima fronteira dos avanços civilizatórios se coloca bem mais no plano dos indivíduos do que no âmbito dos Estados.
Esta é a minha perspectiva política, Niccolò, que difere talvez um pouco da sua, por razões inteiramente compreensíveis. Mas desejo confirmar-lhe, expressamente, que aprendi muito com os seus próprios escritos e com os relatos e análises que li da sua vida e do seu pensamento. Você escreveu ao seu amigo Vettori, com a esperança de que o seu “opúsculo” – na verdade uma das maiores obras do pensamento político moderno, aquela que criou, verdadeiramente, a ciência da política – fosse lido mais amplamente, dizendo-lhe que a obra condensava quinze anos empenhados “no estudo da arte do Estado”. Sua carta terminava dizendo que ninguém deveria duvidar da sua fidelidade no serviço do Estado: “da minha lealdade é testemunho a minha pobreza”.
Estou certo disso, Niccolò, e devo dizer-lhe, pessoalmente, que, depois de muitos anos dedicados ao serviço do Estado e da sociedade, eu também posso afirmar fidelidade a certas idéias, princípios e valores. Acredito, mesmo, que eles se parecem muito com os seus, Niccolò, e é por isso que eu pretendi prestar-lhe uma homenagem por meio deste Príncipe, que se pretende em comunhão espiritual e que se situa inteiramente na tradição intelectual que você inaugurou, caro ambasciatore.

Um seu admirador
Refúgio dos bibliófilos, 11 de setembro de 2007
(494º aniversário da redação d’O Príncipe)

Sumário completo do livro neste link.

1746) Prefácio a "O Moderno Príncipe (Maquiavel revisitado)

Transcrevo o prefácio que preparei ao meu mais recente livro, que está sendo lançado virtualmente neste sábado 23.01.2010:

O Moderno Príncipe: Maquiavel revisitado
(Rio de Janeiro: Freitas Bastos, edição eletrônica, 2009, 191 p.; ISBN: 978-85-99960-99-8); R$ 12,00; disponível online neste link: http://freitasbas.lojatemporaria.com/o-moderno-principe.html

Prefácio

Este livro foi escrito por um proscrito. Explico: O Príncipe, original de 1513, foi escrito por Nicolau Maquiavel quando ele se encontrava em completo ostracismo, depois que a conquista da Toscana pelos espanhóis recolocou no comando de Florença, em 1512, a família dos Médici. Como escreveu Delio Cantimori, no verbete sobre o florentino que ele preparou para a Storia della Letteratura Italiana (quinto volume, da Garzanti), “nonostante l’ingegno, l’acutezza e la dottrina che gli venivan riconosciuti, il Machiavelli non fu mai chiamato agli uffici maggiori della repubblica fiorentina che egli servi dal 1498 al 1512”.1 De fato, depois de ter servido durante quase três lustros à República da sua cidade natal (1469), e de ter desempenhado missões diplomáticas da mais alta responsabilidade – em 1500, em Pisa, para resolver uma rebelião de soldados mercenários; logo em seguida junto ao reino de Luís XII da França, retornando ali mais três vezes, entre 1504 e 1511; em 1502 junto ao duque Valentino, César Bórgia, em Urbino e Sinigaglia; em 1503 e 1505, em Roma; em 1507, junto ao Imperador Maximiliano, do Sacro Império Romano Germânico –, Maquiavel nunca mais retornou ao seu cargo de segretario, a despeito de ter desempenhado outras missões diplomáticas nos últimos anos de sua vida.
Como o próprio Maquiavel escreveu, em torno de 1518-1519, na apresentação a outro
texto seu dessa fase de desterro, os Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ele havia colocado em seus escritos toda a substância do que sabia e do que tinha aprendido ao longo de uma vida dedicada à prática política e às leituras constantes em torno “delle cose del mondo”, ou, como transcreve Cantimori, “per ‘lunga pratica’ della vita política, ‘continua lettura’ della storia política”.2 Condenado ao confinamento por um ano, em 1512, mas não reabilitado depois disso, Maquiavel se retirou na sua vila Albergascio, perto de San Casciano, no Val di Pesa, e ali, amargurado por um injusto isolamento, soube reagir ao afastamento forçado da política ativa que lhe impuseram, colocando no papel suas reflexões sobre a prática da política, sobre a arte da guerra e a propósito dos ensinamentos que se podiam retirar do itinerário dos grandes homens e da evolução, entre auge e declínio, das sociedades da antiguidade clássica. Por uma dessas ironias da história, ele veio a morrer no mesmo ano em que a república foi restabelecida em Florença, em 1527.

Este Moderno Príncipe também condensa tudo o que me foi possível aprender ao longo de uma vida dedicada à atenta observação delle cose del mondo, ao estudo das coisas da política e das artes diplomáticas, assim como no aproveitamento de continue letture, em todas as áreas das ciências humanas e disciplinas afins, ou seja, em tudo aquilo que interessa ao homem enquanto ser político. O livro também foi escrito em condições de relativo isolamento, pelo menos da diplomacia prática, que exerci de modo contínuo de 1977 a 2003, depois de já ter enfrentado meu próprio desterro, ainda que semi-voluntário, entre 1970 e 1977, na fase mais dura do regime militar que tutelou o Brasil de 1964 a 1985. Meu novo ostracismo involuntário permitiu, ao lado do exercício de lides acadêmicas que sempre permearam a atividade profissional, longas noites de leitura, intensas reflexões sobre as transformações do mundo contemporâneo e do Brasil atual, como também propiciou a produção de escritos a respeito da conjuntura política e sobre a história diplomática, divulgados em revistas especializadas ou em livros por mim publicados.
De todos os livros que escrevi – no mais das vezes voltados para as relações internacionais e a política externa do Brasil –, o que mais reflete o meu pensamento político e aquele de que mais gosto, A Grande Mudança (Códex, 2003), é o que menos obteve sucesso de público, permanecendo relativamente desconhecido (talvez pelo fato de, quando do lançamento, me encontrar no exterior). Em todo caso, este livro retoma algumas das reflexões ali conduzidas pela primeira vez e amplia meu aprendizado nas artes da política por meio de uma retomada linear do texto que se encontra, a justo título, no panteão das grandes obras do pensamento universal. Quase quinhentos anos depois, como para muitos clássicos, a constatação se impõe por si só: Maquiavel continua atual!
Este “Maquiavel revisitado” segue fielmente o roteiro traçado nos últimos meses de 1513 pelo pensador e diplomata florentino. A estrutura dos capítulos permanece idêntica: apenas troquei “Itália” por “nação”, em dois capítulos finais, seja para tornar a reflexão mais universal, seja para fazê-la aplicável a uma outra grande nação de tradição latina. A temática e a substância de cada um dos capítulos também permanecem relativamente similares: os problemas que angustiavam o segretario de há meio milênio parecem rigorosamente os mesmos, com pequenas adaptações de detalhe ou de linguagem. Alguma novidade nisso? Provavelmente não!
As referências e o tratamento dos problemas são, contudo, inteiramente atuais, ainda que se tenha optado por um estilo e um linguajar deliberadamente “caducos”, como forma de manter um “parentesco espiritual” com a obra de meu predecessor diplomático do Renascimento. O que eu fiz, sim – e nisso me cabe o copyright, ainda que eu deva conceder os moral rights ao florentino –, foi reescrever totalmente o seu “manual de política prática” no sentido daquilo que eu penso deva determinar, hoje, a política moderna: o compromisso democrático; o cumprimento das “regras do jogo”, como diria um outro filósofo da política, Norberto Bobbio; a transparência na administração da coisa pública; a correção no manejo do
pubblico denaro e, sobretudo, a honestidade intelectual, que para mim é o critério básico de qualquer ação social, independentemente da área na qual ela se insira.
Maquiavel escreveu o seu pequeno “manual” como uma espécie de guia de conduta
para os governantes, mas ele se coloca bem mais do ponto de vista do Estado do que do ponto de vista dos cidadãos. Talvez se pudesse dizer, sem ostentação ou pretensões exageradas, que meu pequeno manual pretende ser uma espécie de guia de conduta para os governados e ele se coloca, mais bem, do ponto de vista dos indivíduos, que constituem, afinal de contas, o destino final de toda a ação política.
Revisitar Maquiavel é sempre angustiante, como já escreveu certa vez Raymond Aron, uma vez que as relações entre a moral e a ação política, entre a ética e a eficácia, entre os fins e os meios, estão sempre sendo colocadas na balança de nossas escolhas fundamentais. As minhas escolhas ficam transparentes em cada parágrafo do meu texto, mesmo quando a “racionalidade econômica” parece predominar sobre a “justiça social”, ou quando os valores morais são confrontados aos procedimentos políticos, que sempre evidenciam, como todos sabem, o eterno dilema entre as convicções pessoais e os resultados práticos, no plano da ação social. As minhas opções estão postas claramente nas páginas que seguem e a primeira delas, ouso repetir, é justamente a honestidade intelectual. Este princípio fundamental compensa qualquer ostracismo.
Gostaria, por fim, de agradecer a todos aqueles que me ajudaram, voluntariamente ou não, na finalização deste livro, em primeiro lugar no processo de sua revisão. Ele tinha sido iniciado em meados de 2003, como o segundo de uma série de “clássicos revisitados” – tendo o primeiro sido uma atualização do Manifesto Comunista de 1848, aos 150 anos de sua edição original – mas, desde então, tinha ficado parado em virtude de uma carregada agenda de obrigações profissionais e acadêmicas. Inesperadamente, encontrei o tempo que me faltava em meados de 2007: sou reconhecido, portanto, também aos que me permitiram dispor de condições para finalizá-lo.

Paulo Roberto de Almeida
Brasília, 25 de setembro de 2007

Notas:
1 Cf. Delio Cantimori, “Introduzione”, in Niccolò Machiavelli, Il Príncipe e le opere politiche, Milão: Garzanti, 1976, p. xi.
2 Idem, a partir de C. Pinsin, Sul testo del Machiavelli. La prefazione alla prima parte dei “Discorsi”, in Atti dell’Academia delle Scienze di Torino, vol. 94 (1959), disp. 2, Torino, 1960, p. 506-518; cf. “Introduzione”, op. cit. supra, p. xi.

Ver sumário completo neste link.

1745) Minha dedicatoria ao Maquiavel

Muitos livros, não todos, contem dedicatórias, ou seja, uma palavra gentil, uma demonstração de reconhecimento, a quem fez por merecer: mestres, mulher, filhos, gato, cachorro, papagaio, deus, whoever...
No caso do "meu" Maquiavel, minha dedicatória é a ele mesmo, na companhia de quem passei dias e noites agradáveis, refletindo sobre o poder, o caráter efêmero da glória (aquela coisa: sic transit gloria mundi...), enfim, dialogando mentalmente com meu mentor espiritual, enquanto eu reescrevia o seu Príncipe, adaptado para os tempos modernos.
Abaixo, minha dedicatória, no livro agora lançado:

Dedicatória
Al Signore Niccolò Machiavelli, segretario diplomatico della Repubblica di Firenze, banito dal suo posto per motivi di cambiamenti politiche, uno suo ammiratore.

Caro Niccolò,
Escrevo esta dedicatória quase quinhentos anos depois que você dirigiu a sua, num livro de título praticamente igual a este, a um senhor de nobre linhagem, um dos Médici, que estava, naquele mesmo momento, recuperando o poder em Florença, cidade à qual você serviu fielmente durante longos anos. Sei que a sua dedicatória foi escrita em uma fase muito difícil da sua vida, quase dramática, quando você tentava, na verdade, recuperar os seus títulos, cargos e funções, dos quais tinha sido afastado, por motivos de baixa política, eu até diria por ciúmes, dada a inveja que os novos donos do poder tinham do seu valor e das suas qualidades de estadista.
De minha parte, ao abrir um livro de espírito e motivações similares ao seu, não vou dedicá-lo a um representante de qualquer família ou grupo dirigente. Não pretendo seguir o seu exemplo; para ser mais exato, não necessito fazê-lo, uma vez que minha vida e o meu trabalho se desenvolvem em tempos mais amenos, comparativamente aos barbari tempii nos quais você tinha de viver. Por isso, e em total legitimidade, dedico esta obra a você mesmo, Niccolò, pois ela, na verdade, tudo lhe deve, muito na forma e bastante do conteúdo.
Não é difícil deduzir de sua obra, e de sua vida, que você foi um genial pensador político, um diplomata dedicado, um cidadão honrado, cumpridor dos seus deveres, um atento estudioso dos livros antigos (como eu sou, aliás), um pai de família extremoso, como a poucos conheci, em uma atribulada carreira, feita de intensas leituras, freqüentes viagens e muitas reflexões (estou aqui falando de nós dois, ambi due). Como disse um admirador seu, que me precedeu, “il suo merito principale sta nell’avere, con metodo sicuro, creato una nuova scienza politica, fondandola sulla storia e sulla esperienza” (Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi; 3a. ed.; Milano: Ulrico Hoepli, vol. II, 1913, p. 466).
No Príncipe, você trata basicamente da monarquia, de um regime conduzido por um chefe exclusivo, quase despótico, no limite da tirania. Nos seus Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, você se ocupa, sobretudo, da república, de como ela deveria ser, nos tempos antigos e modernos. Em ambas as obras, o que está, na verdade, em jogo é a autonomia do Estado e a sua capacidade de implementar medidas visando ao bem comum, à sobrevivência da independência e da soberania do Estado em primeiro lugar, para em seguida velar pelo bem estar dos súditos, ou dos cidadãos, conforme o caso. Muitos se perguntaram se, em cada uma dessas obras, aquele que se expressava por meio de argumentos rápidos, cortantes, como no Príncipe, ou através de longas digressões históricas, como nos Discursos, era um republicano ou um cortesão: creio poder dizer que se tratava de um verdadeiro patriota, de um homem que amava a liberdade, a unidade e a independência de sua pátria, que era, antes mesmo da “sua” república florentina, a Itália em seu conjunto.
Você tinha o hábito, que eu também partilho, de apoiar-se na história para tratar de casos presentes. Não apenas no Príncipe, mas também nos Discursos, você se referia aos homens de Estado da antiguidade para ilustrar suas lições de estadismo, da arte da política, no mais alto sentido desta palavra. Mas você não pretendia tratar, de verdade, da situação corrente da Itália, por mais calamitosa que esta fosse, na luta para assegurar autonomia nacional e independência em relação às potências da época, a França e a Espanha, em primeiro lugar. Por certo, lhe entristecia ver as repúblicas e principados da Itália desunidos, combatendo entre si, enquanto hordas de mercenários e soldados estrangeiros penetravam em suas cidades, saqueando palácios, espoliando os burgueses, roubando os camponeses e perpetrando toda sorte de abusos.
Na verdade, ao escrever tantas páginas memoráveis nos Discursos e no Príncipe, você estava pensando, sobretudo, no futuro da Itália. Daí não hesitar você em recomendar soluções que a muitos podem ter aparecido, e ainda hoje aparecem, como isentas de qualquer sentido moral. O que você pretendia, e espero estar bem interpretando suas intenções, era assegurar a autonomia plena do Estado, de maneira que este pudesse defender a honra nacional e o bemestar dos cidadãos (sim, de preferência a súditos, pois eu sei que você privilegiava a república, sobre a monarquia, mas achava, malgrado os inconvenientes, que esta podia ser uma solução temporária a uma situação de caos incontrolável). Daí sua tolerância com regimes próximos do autoritarismo – sei que a linguagem antiga se referia à tirania – desde que o príncipe, em situação de poder e de comando, pudesse ou soubesse garantir pax, ordo et concordia, que para você eram essenciais na condução dos assuntos públicos.
Claro, o ideal, para você e para todos os cidadãos de bem –, ainda que convertidos
temporariamente em súditos – seria que o principado ou a república, ameaçados de desagregação, fossem conquistados e governados por algum sapientissimus princeps, cercado de conselheiros hábeis – como você mesmo –, até que os próprios governados pudessem resolver a questão, com a legítima eleição dos seus chefes, de preferência em regime republicano, aberto aos méritos e não apenas aos clãs familiares tradicionais. Esse ideal não pôde ser alcançado na sua Florença, e ainda menos em outras partes da Itália, até vários séculos depois que você nos legou suas páginas memoráveis sobre a arte de conquistar, de manter e de governar os principados.
Você bem que se esforçou para que isso pudesse ocorrer, até violentando parcialmente o seu pensamento, pois que aparentemente disposto a servir um nobre de natureza despótica, desde que ele soubesse, pelo menos, lutar pela independência e autonomia da Itália, que ele pudesse libertá-la dos bárbaros que a assolavam continuamente, nesses tempos de transição entre o puro regime oligárquico dos tempos antigos e as novas formas de representação política dos citadinos organizados. Quando, em 1512, depois da batalha de Ravena, os Médici recuperaram o poder em Florença, a sua sorte muda radicalmente. Em lugar de ser recompensado pelo brilhante trabalho diplomático a serviço de cidade toscana, você, por resolução tomada em 7 de novembro de 1512, foi privado de toda e qualquer função oficial.
Segundo os termos do decreto então assinado, seus direitos e encargos de segretario foram abolidos: cassaverunt, privaterunt et totaliter amoverunt. Mais do que você, foi a cidade e o país que perderam com o seu ostracismo, as suas férias involuntárias, tanto mais duros, l’ozio forzato e l’allontanamento, que você era, do testemunho de todos, un uomo attivissimo, capaz de desempenhar os complexos encargos da sua cancelleria fiorientina com competência invulgar e em tempo exíguo. Cansado da sua solidão, da espera em vão por um posto que não veio jamais, você se entregou, con grandissimo ardore, como diz Villari, allo studio. Em conseqüência, você se refugiou na sua
vila de província, dimenticava la sua miseria, e passou a escrever, segundo esse seu admirador, alcuni di quelle pagine di scienza politica, che resero per tutti i secoli immortale il suo nome (Villari, op. cit., vol. II, p. 270 e 212). Assim, no espaço de poucos meses, em 1513, emergiu Il Principe e tomou forma, ainda que sua redação se estendesse por muitos anos mais, os seus Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
Por todas essas razões, e outras mais, cabe-me dedicar esta modesta obra, que muito deve, como já disse, às suas páginas imortais, a você, Niccolò, mesmo à distância de quase quinhentos anos e em circunstâncias, talvez, muito diferentes daquelas nas quais você foi levado a colocar no papel suas reflexões e ensinamentos de uma vida inteira dedicada à coisa pública. No seu tempo, a corrupção política era generalizada, na Itália mais do que em qualquer outra parte da Europa, talvez porque ali houvesse mais recursos a serem pilhados por líderes políticos e religiosos sem escrúpulos. A moral cristã, que deveria teoricamente prevalecer, era na verdade completamente abandonada na vida pública. Não só no seu tempo, Niccolò...
Daí sua intenção de fundar a política, tanto a ciência quanto a sua prática, sobre uma nova moral, de caráter laico, civil, republicano. Devo reconhecer que, a despeito de muitas frustrações na vida diplomática, nos negócios e na política, você o conseguiu, e de forma brilhante: hoje, os seus escritos converteram-se em leitura obrigatória, tanto para os estudiosos quanto, sobretudo, para os praticantes da política, muito embora estes últimos nem sempre façam bom uso dos seus ensinamentos, que eles tomam pelo lado mais simplista possível.
A queda da República de Florença foi uma desgraça pessoal para você, mas talvez tenha sido uma grande fortuna para todos nós, porque o exílio forçado o levou a escrever estas páginas imortais. Se você tivesse permanecido na cancelleria fiorentina, não teríamos dos seus escritos que as cartas de legação e os ofícios diplomáticos, de estilo talvez aborrecido e, em todo caso, circunstanciais e estritamente conjunturais. Ao contrário, a partir do sabático involuntário que lhe impuseram, podemos agora dispor de suas idéias e reflexões de maior escopo conceitual e de larga amplitude intelectual. O seu infortúnio pessoal e a ruína da Itália nos valeram as mais belas páginas de ciência política que foram concebidas desde a antiguidade clássica e, provavelmente, até os dias de hoje. Quanto aos seus algozes, Niccolò, eles estão, em grande medida, esquecidos.
Esta obra, em particular, corresponde a um esforço de riordinamento politico generale de que a Itália muito necessitava, naquela época, e que talvez outros países ainda necessitem, hoje em dia. A Reforma, iniciada por Lutero, também fez bem aos países católicos, pois que obrigou-os a corrigir os aspectos mais corruptos e venais da política e da religião naquele período. Você preferiu afastar a religião e o poder dito espiritual do esforço de reconstituição da política e da formação do Estado moderno, o que considero basicamente correto. Nos tempos que correm, a política é essencialmente laica, muito embora muitos procurem explorar a religião para seus fins particulares. Creio, porém, que a política necessita, como na sua época, de um rientro morale que muito beneficiaria as instituições e os costumes. A sua virtu,
não era a virtude cristã, e sim a coragem e a energia de um líder político no esforço de construir sobre bases sólidas, mas nem por isso menos éticas, a administração dos homens e das coisas, em prol do bem-estar comum.
Portanto, meu caro segretario della repubblica fiorentina, à qual você serviu, durante 15 anos, com grandissimo zelo e costanza, sinta-se homenageado por esta obra que pretende, justamente, prestar-lhe um modestíssimo tributo pessoal, como prova de meu apreço por sua rara inteligência e por seu alto valor moral.

Refúgio dos bibliófilos, aos 494 anos da redação da obra do mestre.

(http://www.pralmeida.org/01Livros/2FramesBooks/95maquiavelrevisitado.html)

1744) Maquiavel tropeçou no link: refazendo o convite...

Bem, eu havia feito um convite anteriormente, para o lançamento virtual de meu livro de política moderna (como se estivesse dialogando com Maquiavel, o que convenhamos não seria nada mau), mas acontece que o convite enviado pela editora apresentou um problema de linkagem, justamente na palavra "chat", o que impediria alguém (como me impediu, ao fazer um teste nesta sexta-feira) de conectar-se à URL específica que funciona como plataforma para o chat.
Sem pretender ser insistente, portanto, mas apenas corrigindo uma falha técnica (como diriam radialistas e âncoras de programas audio-visuais), refaço agora o convite, com o link explicitamente indicado, e linkado...


A Editora Freitas Bastos e Paulo Roberto de Almeida convidam para o lançamento virtual do livro (editado em forma eletrônica):

O Moderno Príncipe (Maquiavel revisitado)
(Rio de Janeiro: Freitas Bastos, edição eletrônica, 2009, 191 p.; ISBN: 978-85-99960-99-8); R$ 12,00;

disponível online neste link.

O lançamento, virtual, sob a forma de chat com o autor, será feito no próximo sábado, 23 de janeiro, das 17 as 18hs, neste link:
http://xat.com/EBooksFreitasBastos?p=0&ss=6

Mais informacoes sobre o livro neste link.

PS: Quem ainda assim tiver dúvidas, tem um outro link que fornece o passo a passo para se conectar (vou testar também), pois devem ser as FAQs ou um Idiot's Guide to Chat for Everyone...
Neste link: http://www.freitasbastos.com.br/chat/passo_a_passo.html

1743) Big Government: The growth of the state


The growth of the state
Leviathan stirs again

The Economist, January 21st 2010

The return of big government means that policymakers must grapple again with some basic questions. They are now even harder to answer

FIFTEEN years ago it seemed that the great debate about the proper size and role of the state had been resolved. In Britain and America alike, Tony Blair and Bill Clinton pronounced the last rites of “the era of big government”. Privatising state-run companies was all the rage. The Washington consensus reigned supreme: persuade governments to put on “the golden straitjacket”, in Tom Friedman’s phrase, and prosperity would follow.

Today big government is back with a vengeance: not just as a brute fact, but as a vigorous ideology. Britain’s public spending is set to exceed 50% of GDP (see chart 1). America’s financial capital has shifted from New York to Washington, DC, and the government has been trying to extend its control over the health-care industry. Huge state-run companies such as Gazprom and PetroChina are on the march. Nicolas Sarkozy, having run for office as a French Margaret Thatcher, now argues that the main feature of the credit crisis is “the return of the state, the end of the ideology of public powerlessness”.

“The return of the state” is stirring up fiery opposition as well as praise. In America the Republican Party’s anti-government base is more agitated than it has been at any time since the days of the Gingrich revolution in 1994. “Tea-party” protesters have been marching across the country with an amusing assortment of banners and buttons: “Born free, taxed to death” and “God only requires 10%”. On January 19th Scott Brown, a Republican, captured the Massachusetts Senate seat long held by the late Ted Kennedy, America’s most prominent supporter of big-government liberalism.

Many European countries have devoted a high proportion of their GDP to public spending for years. And many governments cannot wait to get out of their new-found business of running banks and car companies. But the past decade has clearly produced changes which, taken cumulatively, have put the question of the state back at the centre of political debate.

The obvious reason for the change is the financial crisis. As global markets collapsed, governments intervened on an unprecedented scale, injecting liquidity into their economies and taking over, or otherwise rescuing, banks and other companies that were judged “too big to fail”. A few months after Lehman Brothers had collapsed, the American government was in charge of General Motors and Chrysler, the British government was running high street banks and, across the OECD, governments had pledged an amount equivalent to 2.5% of GDP.

The crisis upended conventional wisdom about the relative merits of governments and markets. Where government, in Ronald Reagan’s aphorism, was once the problem, today the default villain is the market. Free-marketeers such as Alan Greenspan, the former head of the Federal Reserve, have apologised for their ideological zeal. A line from Rudyard Kipling sums it up best: “The gods of the market tumbled, and their smooth-tongued wizards withdrew”.

Yet even before Lehman Brothers collapsed the state was on the march—even in Britain and America, which had supposedly done most to end the era of big government. Gordon Brown, Britain’s chancellor and later its prime minister, began his ministerial career as “Mr Prudent”. During Labour’s first three years in office public spending fell from 40.6% of GDP to 36.6%. But then he embarked on an Old Labour spending binge. He increased spending on the National Health Service by 6% a year in real terms and boosted spending on education. During Labour’s 13 years in power two-thirds of all the new jobs created were driven by the public sector, and pay has grown faster there than in the private sector (see chart 2).

In America, George Bush did not even go through a prudent phase. He ran for office believing that “when somebody hurts, government has got to move”. And he responded to the terrorist attacks of September 11th 2001 with a broad-ranging “war on terror”. The result of his guns-and-butter strategy was the biggest expansion in the American state since Lyndon Johnson’s in the mid-1960s. He added a huge new drug entitlement to Medicare. He created the biggest new bureaucracy since the second world war, the Department of Homeland Security. He expanded the federal government’s control over education and over the states. The gap between American public spending and Canada’s has tumbled from 15 percentage points in 1992 to just two percentage points today.

The public’s demands
The expansion of the state in both Britain and America met with widespread approval. The opposition Conservative Party applauded Mr Brown’s increase in NHS spending. Mr Bush met no significant opposition from his fellow Republicans to his spending binge. It was clear that, when it came to their own benefits, suburban Americans wanted government on their side. A banner at one of those tea-parties sums up the confused attitude of many of the so-called anti-government protesters: “Keep the government’s hands off my Medicare.”

The demand for public services will soar in the coming decades, thanks to the ageing of the population. The United Nations points out that the proportion of the world’s population that is over 60 will rise from 11% today to 22% in 2050. The situation is especially dire in the developed world: in 2050 one in three people in the rich world will be pensioners, and one in ten will be over 80. In America more than 10,000 baby-boomers will become eligible for Social Security and Medicare every day for the next two decades. The Congressional Budget Office (CBO) calculates that entitlement spending will grow from 9% of GDP today to 20% in 2025. If America keeps its distaste for taxes, it will face fiscal Armageddon (see chart 3).

The level of public spending is only one indication of the state’s power. America’s federal government employs a quarter of a million bureaucrats whose job it is to write and apply federal regulations. They have cousins in national and supranational capitals all round the world. These regulators act as force multipliers: a regulation promulgated by a few can change the behaviour of entire industries. Periodic attempts to build “bonfires of regulations” have got nowhere. Under Mr Bush the number of pages of federal regulations increased by 7,000, and eight of Britain’s ten biggest regulatory bodies were set up under the current government.

The power of these regulators is growing all the time. Policymakers are drawing up new rules on everything from the amount of capital that banks have to set aside to what to do about them when they fail. Britain is imposing additional taxes on bankers’ bonuses, America is imposing extra taxes on banks’ liabilities, and central bankers are pondering ingenious ways to intervene in overheated markets. Worries about climate change have already led to a swathe of new regulations, for example on carbon emissions from factories and power plants and on the energy efficiency of cars and light-bulbs. But, since emissions are continuing to grow, such regulations are likely to proliferate and, at the same time, get tighter. The Kerry-Boxer bill on carbon emissions, which is now in the Senate, runs to 821 pages.

Fear of terrorism and worries about rising crime have also inflated the state. Governments have expanded their ability to police and supervise their populations. Britain has more than 4m CCTV cameras, one for every 14 people. In Liverpool the police have taken to using unmanned aerial drones, similar to those used in Afghanistan, to supervise the population. The Bush administration engaged in a massive programme of telephone tapping before the Supreme Court slapped it down.

Another form of the advancing state is more insidious. Annual lists of the world’s biggest companies have begun to feature new kinds of corporate entities: companies that are either directly owned or substantially controlled by the state. Four state-controlled companies have made it into the top 25 of the 2009 Forbes Global 2000 list, and the number is likely to grow. Chinese state-controlled companies have been buying up private companies during the financial crisis. Russia’s state-controlled companies have a long record of snapping up private companies on the cheap. Sovereign wealth funds are increasingly important in the world’s markets.

This is partly a product of the oil boom. Three-quarters of the world’s crude-oil reserves are owned by national oil companies. (By contrast, conventional multinationals control just 3% of the world’s reserves and produce 10% of its oil and gas.) But it is also the result of something more fundamental: the shift in the balance of economic power to countries with a very different view of the state from the one celebrated in the Washington consensus. The world is seeing the rise of a new economic hybrid—what might be termed “state capitalism”.

Under state capitalism, governments do not so much reject the market as use it as an instrument of state power. They encourage companies to take advantage of global capital markets and venture abroad in search of opportunities. Malaysia’s Petronas and China’s National Petroleum Corporation run businesses in some 30 countries. But they also use them to control the economy at home—to direct resources to favoured industries or reward political clients. Politicians in China and elsewhere not only make decisions about the production of cars and mobile phones; they are also the hidden hands behind companies that are scouring the world for the raw materials that go into them.

The revival of the state is creating a series of fierce debates that will shape policymaking over the coming decades. Governments are beginning to cut public spending in an attempt to deal with surging deficits. But the inevitable quarrels over cuts will be paltry compared with those about the growth of entitlements. America’s deficit, boosted by recession, is already hovering at a post-war high of 12% of GDP, and the American economy depends on the willingness of other countries (particularly China) to fund its debt. The CBO calculates that the deficit could rise to 23% of GDP in the next 40 years if it fails to tackle the yawning imbalance between revenue and expenditure.

Crises can be the midwives of serious thinking. The stagflation of the 1970s prepared the way for the Reagan and Thatcher revolutions. More recently, several countries have dealt with out-of-control spending by introducing dramatic cuts: New Zealand, Canada and the Netherlands all reduced public spending by as much as 10% from 1992 onwards.

In the early 1990s Sweden faced a home-grown economic crisis that foreshadowed many of the features of the global crisis. The property bubble burst and the government stepped in to save the banks and pump up demand. Public debt doubled, unemployment tripled and the budget deficit increased tenfold. The Social Democrats were elected in 1994 and re-elected twice thereafter on a programme of raising taxes and slashing spending.

This points to an irony: a crisis which promotes state growth in the short term may lead to pruning in the longer term. In Britain power is almost certain to shift from Labour to the Conservatives, who are much keener on cutting public spending. In America the Republicans will make big gains in the mid-term elections and Mr Obama, already sobered by his loss in Massachusetts, will have to move to the centre.

But pruning will still be more difficult than it has ever been before. Getting the public sector to do “more with less” is harder after two decades of public-sector reforms. Across the OECD more than 40% of public goods are provided by the private sector (thanks to privatisation and contracting out) and 75% of public officials are on some sort of pay-for-performance scheme. The ageing of the population makes earlier reforms look easy. Governments will have to ask fundamental questions—such as whether it makes sense to let people retire at 65 when they are likely to live for another 20 years.

The rise of state capitalism is fraught with problems. It may be hard to argue with China’s 30 years of hefty economic growth and $2.3 trillion in foreign-currency reserves. But subordinating economic decisions to political ones can come with a price-tag in the long term: politicians are reluctant to let “strategic” companies fail, and companies become adjuncts of the state patronage machine. Giving the imprimatur of the state to global companies is also fraught with risks. America’s Congress prevented Dubai from taking over American ports on grounds of national security.

Anatomising failure
The most interesting arguments over the next few years will weigh government failure against market failure. The market-failure school had been gaining strength even before the credit crunch struck. The rise of cowboy capitalism in Russia under Boris Yeltsin persuaded many people—not least the Chinese—of the importance of strong government. And the threat of global warming is an obvious example of how government intervention is needed to deter people from overheating the world. Advocates of market failure have also been advancing a broad range of arguments for using the government to “nudge” people’s behaviour in the right direction.

But the fact that markets are prone to sometimes spectacular failure does not mean that governments are immune to it. Government departments are good at expanding their empires. Thus a welfare state that was designed to help people deal with unavoidable risks, such as sickness and old age, is increasingly in the business of trying to eliminate risk in general through a proliferating health-and-safety bureaucracy. Government workers are also good at protecting their own interests. In America, where 30% of people in the public sector are unionised compared with just 7% in the private sector, public-sector workers enjoy better pension rights than private-sector workers, as well as higher average pay.

The public sector is subjected to all sorts of perverse incentives. Politicians use public money to “buy” votes. America is littered with white elephants such as the John Murtha airport in Jonestown, Pennsylvania, which cost hundreds of millions of dollars but serves only a handful of passengers, including Mr Murtha, who happens to be chairman of a powerful congressional committee. Interest groups spend hugely to try to affect political decisions: there are 1,800 registered lobbyists in the European Union, 5,000 in Canada and no fewer than 15,000 in America. Mr Bush’s energy bill was so influenced by lobbyists that John McCain dubbed it the “No Lobbyist Left Behind” act.

These perverse incentives mean that governments can frequently spend lots of money without producing any improvement in public services. Britain’s government doubled spending on education between fiscal 1999 and fiscal 2007, but the spending splurge coincided with a dramatic decline in Britain’s position in the OECD’s ranking of educational performance. Bill Watkins of the University of California, Santa Barbara, calculates that, once you adjust for inflation and population growth, his state’s government spent 26% more in 2007-08 than in 1997-98. No one can argue that California’s public services are now 26% better.

“The question that we ask today”, said Barack Obama in his inaugural address, “is not whether our government is too big or too small, but whether it works.” This is clearly naive: with deficits soaring, nobody can afford to ignore the size of government. Mr Obama’s appeal for pragmatism has some value: conservative attempts to roll back government regulations have led to disaster in the finance industry. But left-wing attempts to defend entitlements and public-sector privileges willy-nilly will condemn the state to collapse under its own weight. Policymakers will not be able to give a serious answer to Mr Obama’s question of whether “government works” without first asking themselves some more fundamental questions about what the state should be doing and what it should be leaving well alone.

Postagem em destaque

Livro Marxismo e Socialismo finalmente disponível - Paulo Roberto de Almeida

Meu mais recente livro – que não tem nada a ver com o governo atual ou com sua diplomacia esquizofrênica, já vou logo avisando – ficou final...