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sexta-feira, 24 de fevereiro de 2023

Le sfide per il Brasile nel nuovo contesto internazionale di tensioni geopolitiche - Paulo Roberto De Almeida

 Mais recente artigo publicado (o original em português encontra-se ao final): 

4324. “Desafios ao Brasil no novo contexto internacional de tensões geopolíticas”, Brasília, 16 fevereiro 2023, 7 p. Respostas a questões colocadas pelo jornalista Artur Ambrogi . Traduzido para o italiano por Ruggero Gambacurta-Scopello em 20/02/2023. Publicado na página de Strumenti Politici (Itália; 24/02/2023; link: https://strumentipolitici.it/le-sfide-per-il-brasile-nel-nuovo-contesto-internazionale-di-tensioni-geopolitiche/). Relação de Publicados n. 1495.

 

Le sfide per il Brasile nel nuovo contesto internazionale di tensioni geopolitiche 

Strumenti Politici, 24 Febbraio 2023

Con la fine del governo Bolsonaro e il ritorno di Lula da Silva alla presidenza della Repubblica del Brasile, il diplomatico e professore universitario Paulo Roberto de Almeida ha concesso un’intervista alla nostra testata per analizzare la politica estera del più grande paese latino-americano.

Infografica - La biografia dell'intervistato Paulo Roberto de Almeida

– In che modo il Brasile ha tradizionalmente definito i propri interessi nazionali nello scenario geopolitico attraverso la diplomazia? E in che modo governi più recenti hanno mantenuto o interrotto questa tradizione?

Il processo di formulazione delle politiche nazionali e di concretizzazione pratica degli interessi nazionali a livello estero – regionale e internazionale – non è diverso in Brasile da quello che si verifica tradizionalmente in altri Paesi che hanno Stati funzionali, dotati di una diplomazia che opera secondo gli schemi abituali delle relazioni internazionali: il punto di partenza è l’élite dominante a livello economico, che in genere definisce le élites dominanti a livello politico, cioè i rappresentanti di questi settori nel governo (Esecutivo e Legislativo, soprattutto), ottenendo un mix di politiche macro e settoriali che non corrispondono necessariamente agli interessi nazionali in senso lato, bensì agli interessi dei gruppi dominanti nella politica nazionale e nello Stato (cioè le istituzioni funzionali dell’apparato governativo).

Nel caso del Brasile, a differenza degli altri Paesi della regione emersi dal colonialismo iberico, esistevano, già prima dell’indipendenza, delle istituzioni che funzionavano correttamente quando la corte portoghese si trasferì a Rio nel 1808, fuggendo la momentanea dominazione napoleonica della metropoli. Tra il 1808 e il 1821 tutte le politiche applicate al grande impero coloniale portoghese furono formulate a Rio de Janeiro, anche se non necessariamente nell’interesse della sua più grande colonia e dei suoi abitanti. Ma la costituzione e il funzionamento di un governo dotato dei ministeri tipici dell’epoca – tra cui la Marina, la Guerra, gli Interni (Giustizia) e gli Affari Esteri -, contribuirono moltissimo a far sì che, al momento della conquista dell’autonomia politica nazionale, nel 1822, il governo brasiliano iniziasse a funzionare con ministri e funzionari che stavano già operando per elevare il Brasile alla categoria di “Regno unito a quello del Portogallo”, avvenuta nel 1815, ai fini della partecipazione del Regno del Portogallo al Congresso di Vienna dello stesso anno.

Il primo cancelliere brasiliano, José Bonifácio de Andrada e Silva, fu, infatti, il primo brasiliano – o suddito portoghese nato in Brasile – in un gabinetto portoghese del governo provvisorio in funzione sotto il comando del principe reggente D. Pedro, figlio del re D. João VI, dall’inizio del 1822. José Bonifácio intraprese una politica estera decisamente incentrata sugli interessi del Brasile, anche se la diplomazia, dal punto di vista funzionale e umano, era piuttosto precaria dopo il ritorno della corte in Portogallo nel 1821. Tuttavia, questa prima politica estera brasiliana si interruppe con la destituzione e l’esilio di José Bonifácio alla fine del 1823. Da quel momento in poi, la politica estera di Pedro sarà in parte condizionata dagli affari di successione portoghesi e dal regime politico dell’ex metropoli, fino all’abdicazione dell’imperatore nel 1831. In questo primo periodo, la politica estera fu in parte dominata dalla Guerra Cisplatina (il futuro Uruguay) e, in larga misura, dalle questioni del traffico e della schiavitù, sotto la forte pressione della potenza dell’epoca, la Gran Bretagna. A partire dalle reggenze (1831-1840), la politica estera fu più americanista che europea e iniziò il reclutamento e la formazione di personale diplomatico, che rappresentava ovviamente l’élite schiavista e latifondista.

Nella Repubblica oligarchica della fine del XIX secolo e della prima metà del XX secolo, la politica estera e la diplomazia erano dominate dagli interessi delle élites legate al caffè – il Brasile era allora, come lo è tuttora, il più grande produttore di caffè al mondo ed un esportatore quasi monopolistico -, con alcuni rappresentanti degli altri settori agrari e delle poche industrie esistenti. A partire dai processi bismarckiani di modernizzazione – industrializzazione, urbanizzazione, democratizzazione – dalla seconda metà del secolo, gli interessi nazionali, in politica interna ed estera, saranno retti ed espressi da un mix di élites attive nella politica nazionale, così formato: un numero sempre più alto di industriali (di cui molti immigrati), i grandi proprietari terrieri (sempre presenti in tutte le fasi della storia della nazione), i militari (estremamente attivi dalla fine dell’Impero e durante le varie fasi della travagliata Repubblica) e altri settori delle élites (grandi imprenditori, banchieri, l’alta burocrazia dello Stato, tra cui la magistratura, quest’ultima essendo considerata come un’élite aristocratica nel servizio pubblico brasiliano).

Infografica – Mappa delle principali attività economiche del Brasile

Durante questo lungo ciclo di progresso materiale ed educativo a partire dagli anni Trenta, sono questi gli interessi che definiscono il ruolo del Brasile nel sistema mondiale e nella partecipazione alla politica mondiale, e un’unica ideologia guida l’insieme dei settori a livello interno ed estero della governanza brasiliana: l’ideologia dello sviluppo, che significa la costruzione di un’economia di mercato prettamente nazionale (da qui il forte nazionalismo e persino l’introversione delle politiche economiche) e, a livello estero, l’immancabile ricerca di autonomia in politica estera attraverso una burocrazia diplomatica reclutata e formata in modo eccellente in quanto dispone, dal 1946, di un’accademia diplomatica che detiene il monopolio della selezione e della formazione di un personale di alta qualità intellettuale.

Nel periodo recente, queste caratteristiche sono rimaste pressoché intatte, nonostante piccole rotture di orientamento durante i mandati lulopetisti (2003-2016), dovute alle caratteristiche, in una certa misura di parte (di sinistra), di alcuni orientamenti di politica estera, e avendo subito un impatto ancor più considerevole dalla vera e propria rottura introdotta dal governo Bolsonaro (2019-2022), che ha corrisposto al parziale abbandono della ricerca di autonomia in politica estera in cambio di un’associazione mal pensata e poco strutturata con gli Stati Uniti – o più precisamente con il presidente Donald Trump – e di un’inversione di rotta in alcune politiche (quella ambientale, ad esempio), in un completo disallineamento con gli orientamenti generali della diplomazia. Nella fase attuale, in cui il PT (2023-2026) è tornato al potere, gli interessi nazionali e la politica estera continueranno ad avere una posizione centrale, influenzati dall’ideologia di sinistra del presidente Lula, ma in un gioco di contrattazione con le tradizionali élites dominanti (economiche e politiche).

In breve, gli interessi nazionali del Brasile nella sfera estera continueranno ad essere segnati da questa ideologia di sviluppo, dalla ricerca di autonomia nell’economia e nella politica estera, con una partecipazione significativa del suo corpo diplomatico nell’attuazione delle decisioni del governo centrale, ma anche da una grande esitazione nel definire le alleanze estere, che si riflette in un peso relativamente elevato del Paese nell’economia mondiale, ma in una scarsa partecipazione ai processi decisionali a livello globale.

– Qual è l’approccio del Brasile alle questioni di sicurezza e difesa in America Latina e nel mondo? I governi Bolsonaro e Lula hanno qualche somiglianza in questo percorso o le loro visioni ideologiche antagoniste li collocano sempre in campi geopolitici opposti?

Fin dall’inizio di una diplomazia di professione, moderna e consapevole – ai tempi del Barone di Rio Branco, all’inizio del XX secolo – il Brasile ha avuto un approccio alle questioni di sicurezza e di difesa basato sul rispetto del diritto internazionale e, sempre più, sul multilateralismo. L’integrazione con l’America Latina è un fenomeno relativamente recente, soltanto mezzo secolo, e non si è ancora tradotto in istituzioni stabili che convergano con gli interessi nazionali del Brasile. Tuttavia, una posizione che è stata adottata da vari governi dalla fine della Seconda guerra mondiale è quella di deviare le tensioni tra le grandi potenze mondiali, una posizione di equilibrio generalmente allineata con gli interessi del grande partner emisferico, gli Stati Uniti. Più recentemente, la crescente preminenza economica della Cina ha diluito l’influenza degli interessi americani nella politica brasiliana, e la ricerca di una sempre maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti ha condotto i governi del PT a proporre schemi e meccanismi di concertazione e coordinamento regionale che si allontanano dalle vecchie istituzioni emisferiche (l’OSA, ad esempio), a favore della creazione di nuovi strumenti specificatamente regionali (Unasur, Celac), anche nell’ambito della difesa, come il CDS, il Consiglio di Difesa Sudamericano, per la cooperazione strategica e militare con i Paesi sudamericani.

Il governo Bolsonaro ha rappresentato, appunto, una rottura con tutte queste iniziative, abbandonando questa cooperazione in cambio di un’illusoria alleanza con gli Stati Uniti (rappresentati esclusivamente dal presidente Trump), e una fantasmagorica coalizione di Paesi conservatori di estrema destra, che si suppone combattano contro il fantasma del “globalismo” (che in termini diplomatici ha rappresentato l’opposizione agli schemi multilaterali, espressione di estrema stupidità). Il ritorno al potere di un governo del PT consentirà la ripresa delle iniziative del periodo 2003-2016 ma le condizioni stesse dell’America Latina sono molto cambiate, con una visibile frammentazione dei processi di integrazione, oltre al proseguimento dei vecchi schemi di inserimento nell’economia globale (la specializzazione nelle materie prime, ad esempio), che rappresentano una perdita di dinamismo e il persistere della povertà.

FOTO - International Exhibition CenterOsaka, Japan - 28 Giugno 2019
FOTO – International Exhibition Center – Osaka, Japan – 28 Giugno 2019

– Come affrontano attualmente i diplomatici brasiliani le tensioni geopolitiche in ambito economico in questa fase di governo post-Bolsonaro con il ritorno di Lula alla presidenza (BID, OMC, richiesta di adesione all’OCSE, affinità e differenze con i Paesi del Mercosur, Banca BRICS, ecc.)

Vi sono sfide colossali per reinserire il Brasile nel mondo, dopo i governi abbastanza attivi in diplomazia, che sono stati quelli di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) e di Lula-PT (2003-2016), e portate avanti, con qualche difficoltà, dal governo di Michel Temer (2016-2018), dopo la grande crisi che coinvolse la presidente Dilma Rousseff nel 2014-2015. Non vi è ancora una linea dominante nelle politiche nazionali e nella politica estera, poiché le condizioni per l’azione del Brasile nel mondo sono state alquanto alterate dalla disastrosa presidenza Bolsonaro (soprattutto nel campo delle politiche estere, in particolare quella ambientale), ma anche dalla rottura del governo Trump con la politica globale statunitense. 

L’attuale governo del PT è favorevole alla ripresa dei processi di integrazione regionale, ma in una situazione di dispersione degli sforzi e di orientamenti disparati nei vari Paesi; allo stesso tempo è riluttante per quanto concerne l’adesione all’OCSE, che apparentemente rappresenterebbe un certo abbandono delle politiche economiche nazionali a favore di un maggiore inserimento nella globalizzazione, in contraddizione con l’aspirazione a essere chiamati a svolgere un ruolo più attivo nelle istituzioni multilaterali (G20, CS-ONU) e nel G7. L’iniziativa di creare il BRIC, poi allargato a BRICS (e nuovamente chiamato ad accogliere nuovi membri), potrebbe avere una certa influenza nel determinare la politica estera del Brasile, dato che il gruppo ha come membri le due grandi autocrazie anti-occidentali, Russia e Cina.

– Come si pone il Brasile di Lula di fronte ai segnali di riavvicinamento da parte di nazioni centro-occidentali come gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea?

Questo processo era già in corso in precedenza, dal momento che il Brasile aveva “relazioni strategiche” con tutti questi partner, compresa la Cina, ma è diventato estremamente dipendente dai percorsi della nuova geopolitica dall’inizio della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, che dovrebbe avere un impatto sulla politica di “equilibrio” del Brasile nella sua relazione alle grandi potenze. 

È ancora relativamente presto per prevedere come agirà la diplomazia brasiliana di fronte alle crescenti tensioni create dall’aggressività di Putin e anche dalla nuova assertività internazionale del leader cinese Xi Jinping, in special modo per quanto concerne Taiwan, ma anche nel campo della disputa egemonica con gli Stati Uniti, una sorta di nuova guerra fredda economica e tecnologica.

– In che modo la nuova diplomazia brasiliana tende ad affrontare questioni diplomatiche complesse, come la questione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in tempi di tensioni belliche, così come le relazioni con sistemi politici ed economici così diversi dal proprio che cercano un avvicinamento al Brasile sotto il discorso dell’avvento di un nuovo ordine internazionale multipolare?

In qualità di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Brasile continuerà con la sua tradizionale richiesta di riforma della Carta delle Nazioni Unite e di allargamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma con scarse possibilità di avanzare su questo tema, date le tensioni attualmente esistenti. 

Anche la richiesta di un “nuovo ordine internazionale multilaterale” non è realistica, poiché non sarà consolidata dalla retorica dei principali partner, ma solo da cambiamenti sostanziali nei principali vettori di proiezione del potere, che sono sempre le capacità economiche e militari, una combinazione di hard e soft power, e meccanismi di influenza sull’agenda globale attraverso la diplomazia sorretta da grandi leve di cooperazione che possono essere sostenute solo da risorse abbondanti. 

Il Brasile manca di molti di questi attributi, sebbene abbia una diplomazia di buona qualità e un’elevata capacità di azione; ma i grandi problemi interni – aumento della povertà, estrema disuguaglianza nella distribuzione, bassa produttività e scarsa capacità di innovazione tecnologica – rendono difficile per il Paese agire in modo più assertivo nel teatro globale.

Gli eventuali profitti del Brasile negli scenari regionali e globali saranno incrementali e piuttosto lenti, poiché le sfide interne (economiche, sociali e anche politiche, data l’attuale mancanza di coesione tra le élites) sono molto più grandi delle ampie opportunità estere, basate sul potere del suo agroalimentare e sul suo piccolo soft power, più simbolico che effettivo (tranne che in campo ambientale).

– La diplomazia brasiliana tende a salvare una politica statale in relazione alle questioni del commercio estero e degli investimenti internazionali, compresa la difesa dei suoi interessi economici strategici nei prossimi anni?

Certamente, come è sempre stato fatto, anche se con cambiamenti di stile e di priorità, a seconda delle preferenze dei governi. Il terzo mandato di Lula dovrebbe perseguire queste politiche statali, ma i vecchi schemi nazionalisti e interventisti rallenteranno il processo di crescita, più di quanto avverrebbe, ad esempio, attraverso una decisa adesione ad una “agenda OCSE” di politiche economiche e settoriali che il PT apparentemente rifiuta. 

Allo stesso modo, la ripresa di un’eventuale “leadership” del Brasile nei processi di integrazione dell’America meridionale e latina dipenderà dal suo potere economico e dalla sua propensione ad un’apertura unilaterale a favore dei Paesi della regione, anch’essa improbabile. Insomma, i progressi saranno lenti e intervallati da decisioni contraddittorie, anche a causa delle incertezze che minacciano le relazioni internazionali in un momento in cui la disputa tra il cosiddetto Occidente e le due grandi autocrazie si fa più intensa.

– Il Brasile ha già agito più volte con le Nazione unite per promuovere la pace e la stabilità internazionale, tra cui la protezione dei rifugiati e la partecipazione militare e diplomatica alle missioni di pace e alla negoziazione dei conflitti. Negli ultimi anni, il ha ancora superato del tutto una crisi istituzionale interna, che si è consumata tra attori delle forze armate e autorità civili, culminata nell’invasione e depredazione della sede dei tre rami del governo l’8 gennaio 2023. È certo che il Brasile debba tornare protagonista o è ancora troppo presto per prospettare uno scenario del genere?

 La più grande recessione nella storia economica del Paese, nel 2015-2016, ha lasciato in eredità una sfida enorme per il recupero dell’equilibrio fiscale del Paese, così come la demolizione di molte politiche settoriali durante la disastrosa amministrazione del 2019-2022 di Bolsonaro ha indebolito la capacità del Brasile di agire in modo costruttivo in tutti questi settori, a partire dal fatto che ha enormi debiti con gli organismi multilaterali. Il Brasile riprenderà il suo ruolo di “player” in alcuni ambiti – sicuramente il multilateralismo ambientale – ma faticherà a riconquistare un ruolo di primo piano nella sua regione, considerando le deboli fondamenta dei suoi conti pubblici. 

D’altra parte, la probabile affermazione di una “diplomazia presidenziale” più attiva creerà difficoltà anche alla diplomazia di professione, vista l’impulsività del Presidente ed i suoi errori di valutazione su alcune questioni (come la sciagurata idea di un “club della pace” per affrontare la guerra in Ucraina, ad esempio). Lula tende ad agire più alla ricerca di una maggiore promozione personale che in funzione degli interessi permanenti del Brasile sulla scena globale. Si tratta di un metodo d’azione contraddittorio, in quanto dipendente dalla sua ricerca di prestigio internazionale e fuorviato da alcune ossessioni del vecchio PT di sinistra, antiliberale e antiamericano.

Lo scenario interno è ancora poco chiaro, anche per la sfiducia reciproca tra i militari e l’attuale governo, oltre che per i timori dei cosiddetti “mercati” nei confronti di una politica economica populista – al servizio delle tradizionali clientele del PT, dei poveri, dei sindacati, delle minoranze – che potrebbe danneggiare l’equilibrio dei conti pubblici nei prossimi anni. Quello che sembra certo è che l’economia non avrà il dinamismo necessario per crescere vigorosamente, perché le grandi riforme (fiscale, amministrativa, politica, previdenziale, industriale e commerciale) devono ancora essere effettuate. Senza l’apertura economica o la liberalizzazione del commercio, sarà difficile per il Brasile ottenere un grande inserimento nell’economia globale.

Contatti Intervistato: Paulo Roberto de Almeida è Diplomatico, professore universitario (www.pralmeida.orgdiplomatizzando.blogspot.compralmeida@me.com). 

Traduzione del Portoghese brasiliano per Ruggero Gambacurta-Scopello.

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Desafios ao Brasil no novo contexto internacional de tensões geopolíticas 

 

Paulo Roberto de Almeida

Diplomata, professor

(www.pralmeida.org; diplomatizzando.blogspot.com)

Respostas a questões colocadas por Artur Ambrogi.

  

1. Como tradicionalmente o Brasil define seus interesses nacionais no cenário geopolítico por meio da diplomacia? E, como os governos mais recentes mantém ou rompem com essa tradição?

 

PRA: O processo de formulação de políticas nacionais e da implementação prática dos interesses nacionais no plano externo – regional e internacional – não é diferente, no Brasil, do que ocorre tradicionalmente nos demais países que possuem Estados funcionais, dotados de uma diplomacia atuante segundo os padrões usuais nas relações internacionais: parte-se da elite dominante no plano econômico, que geralmente define as elites dominantes no plano político, ou seja, os representantes desses setores no governo (Executivo e Legislativo, sobretudo), obtendo-se, a partir daí um mix de políticas macro e setoriais que correspondem não necessariamente aos interesses nacionais no sentido lato, mas aos interesses dos grupos dominantes na política nacional e no Estado (ou seja, as instituições funcionais do aparato de governo).

No caso do Brasil, à diferença dos demais países da região saídos do colonialismo ibérico, o país contou, ainda antes da independência, com instituições já montadas e funcionando razoavelmente a partir da transferência da corte portuguesa para o Rio de Janeiro em 1808, fugida da dominação napoleônica temporária na metrópole. Entre 1808 e 1821 todas as políticas aplicadas ao grande império colonial português foram formuladas no Rio de Janeiro, ainda que não necessariamente no interesse da sua maior colônia e dos seus habitantes. Mas, a constituição e funcionamento de um governo dotado dos ministérios típicos da época – entre eles Marinha, Guerra, Interior (Justiça) e Negócios Estrangeiros –, contribuiu enormemente para que, no momento da conquista da autonomia política nacional, em 1822, o governo brasileiro passasse a funcionar com ministros e funcionários que já estavam trabalhando desde a elevação do Brasil à categoria de “Reino Unido ao de Portugal”, o que foi feito em 1815, para fins da participação do Reino de Portugal no Congresso de Viena daquele ano. 

O primeiro chanceler brasileiro, José Bonifácio de Andrada e Silva, era, aliás, o primeiro brasileiro – ou súdito português nascido no Brasil – num gabinete português de governo provisório funcionando sob o comando do príncipe regente D. Pedro, filho do rei D. João VI, a partir do início de 1822. Ele assumiu uma política externa voltada decididamente para os interesses do Brasil, ainda que a diplomacia, pelo lado funcional e humano, fosse bastante precária, depois do retorno da corte a Portugal em 1821. Mas, essa primeira política externa brasileira foi descontinuada com o afastamento e exílio de José Bonifácio no final de 1823. A partir daí, a política externa de D. Pedro será, em parte, dominada pelos assuntos portugueses da sucessão e do regime político na antiga metrópole, até a abdicação do imperador em 1831. Nesse primeiro período, a política externa esteve parcialmente dominada pela Guerra da Cisplatina (o futuro Uruguai) e, em grande medida, pelas questões do tráfico e da escravidão, sob intensa pressão da potência da época, a Grã-Bretanha. A partir das regências (1831-1840) a política externa será mais americanista do que europeia, e tem início o recrutamento e treinamento do pessoal da diplomacia, necessariamente representantes da elite escravocrata e fundiária.

Na República oligárquica do final do século XIX e primeira metade do século XX, a política externa e a diplomacia serão dominadas pelos interesses das elites ligadas ao café – o Brasil era então, como ainda é, o maior produtor do mundo e exportador quase monopolista –, com alguns outros representantes dos demais setores agrários e das poucas indústrias existentes. A partir dos processos bismarckianos de modernização – industrialização, urbanização, democratização – desde a segunda metade do século, os interesses nacionais, na política interna e na política externa, serão dominados e expressos por um mix de elites atuantes na política nacional, crescentemente os industriais (muitos imigrantes), ainda os grandes proprietários de terras (sempre presentes em todas as etapas da história da nação), os militares (extremamente atuantes desde o final do Império e durante as várias fases da conturbada República) e outros setores das elites (grandes comerciantes, banqueiros, alta burocracia do Estado, entre eles a magistratura, quase uma elite aristocrática no serviço público brasileiro). 

Durante todo esse longo ciclo de progressos materiais e educacionais desde os anos 1930, são esses os interesses que definem o papel do Brasil no sistema mundial e na participação da política mundial, e uma única ideologia guia todos esses setores no plano interno e externa da governança brasileira: a ideologia do desenvolvimento, que significa a construção de uma economia de mercado propriamente nacional (daí o forte nacionalismo e mesmo introversão das políticas econômicas) e, no plano externo, a busca sempre presente de autonomia na política externa por meio de uma burocracia diplomática muito bem recrutada e treinada, pois que dispondo, desde 1946, de uma academia diplomática que detém o monopólio da seleção e formação de um pessoal de alta qualidade intelectual. 

No período recente, essas características se mantiveram quase que intactas, a despeito de pequenas rupturas de orientação durante os mandatos lulopetistas (2003-2016), em função das características parcialmente partidárias (de esquerda) de algumas orientações de política externa, e bem mais impactadas pela verdadeira ruptura introduzida pelo governo Bolsonaro (2019-2022), que correspondeu ao abandono parcial da busca dessa autonomia na política externa em troca de uma associação mal informada com os Estados Unidos – ou mais especificamente com o presidente Donald Trump – e de uma inversão em determinadas políticas (a ambiental, por exemplo), num completo desalinhamento com as orientações gerais da diplomacia profissional. Na fase atual, de retorno do PT ao poder (2023-2026), os interesses nacionais e a política externa vão continuar sob a influência da ideologia esquerdista do presidente Lula, mas num jogo de barganhas com as elites dominantes (econômicas e políticas) tradicionais.

Resumindo, os interesses nacionais brasileiros no plano externo continuarão a ser marcados por essa ideologia desenvolvimentista, pela busca de autonomia na economia e na política externa, com uma participação expressiva do corpo profissional de sua diplomacia na implementação das decisões do governo central, mas também por grandes hesitações na definição de alianças externas, o que se reflete num peso relativamente alto do país na economia mundial, mas por pequena participação nos processos decisórios em nível global.

 

2. Qual é a abordagem do Brasil em relação as questões de segurança e defesa na América Latina e no mundo? Os governos Bolsonaro e Lula possuem alguma semelhança nessa senda ou suas visões ideológicas antagônicas os colocam sempre em campos geopolíticos opostos?

 

PRA: Desde o início de uma diplomacia profissional moderna e consciente de si – nos tempos do Barão do Rio Branco, ao início do século XX –, o Brasil tem uma abordagem das questões de segurança e defesa apoiadas no respeito ao Direito Internacional e, crescentemente, no multilateralismo. A integração com a América Latina é um fenômeno relativamente recente, do último meio século apenas, e ainda não se traduziu em instituições estáveis e convergentes com os interesses nacionais do Brasil, mas uma postura seguidamente adotada pelos vários governos desde o final da Segunda Guerra Mundial é o do afastamento das tensões entre as grandes potências do mundo, uma posição de equilíbrio geralmente alinhada com os interesses do grande parceiro hemisférico, os Estados Unidos. Mais recentemente, a crescente preeminência econômica da China diluiu a influência dos interesses americanos na política brasileira, e a busca de uma autonomia ainda maior em relação aos Estados Unidos levou os governos do PT a proporem esquemas e mecanismos de consulta e coordenação regional distantes das antigas instituições hemisféricas (a OEA, por exemplo), em benefício da criação de novos instrumentos (Unasul, Celac) especificamente regionais, inclusive na área da defesa, como o CDS, Conselho de Defesa Sul-Americano, para a cooperação na área estratégica e militar com os países sul-americanos.

O governo Bolsonaro representou, justamente, uma ruptura com todas essas iniciativas, pois que significou o abandono dessa cooperação, em troca de uma ilusória aliança com os Estados Unidos (representados pelo presidente Trump exclusivamente) e de uma fantasmagórica coalizão de países conservadores de extrema-direita, supostamente em luta contra o fantasma do “globalismo” (o que no plano da diplomacia representou a oposição aos esquemas multilaterais, uma expressão de burrice extrema). A volta de um governo do PT ao poder permitirá a retomada das iniciativas do período 2003-2016, mas as próprias condições na América Latina se modificaram bastante, com uma fragmentação visível dos processos de integração, assim como a continuidade dos velhos padrões de inserção na economia global (especialização em commodities, por exemplo), o que representa perda de dinamismo e preservação da pobreza.

 

3. Como os diplomatas do Brasil lidam atualmente com as tensões geopolíticas em âmbito econômico nessa fase pós-governo Bolsonaro com o retorno de Lula à presidência (BID, OMC, pedido de ingresso na OCDE, afinidades e diferenças com países do Mercosul, Banco dos BRICS, etc.)?

 

PRA: Existem enormes desafios para a reinserção do Brasil no mundo, depois dos governos bastantes ativos na diplomacia, que foram justamente os de Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) e Lula-PT (2003-2016), e continuados com alguma dificuldade no governo Michel Temer (2016-2018), depois da grande crise deixada pela presidente Dilma Rousseff em 2014-2015. Ainda não se tem uma linha dominante nas políticas nacionais e na política externa, uma vez que as condições de atuação do Brasil no mundo foram bastantes alteradas pela desastrosa presidência Bolsonaro (sobretudo no terreno das políticas externas, basicamente a ambiental), mas também pela ruptura do governo Trump em relação à política global dos EUA. O atual governo do PT é a favor da retomada dos processos de integração regional, mas numa conjuntura de dispersão dos esforços e orientações díspares nos diversos países; ao mesmo tempo tem relutância com respeito ao ingresso na OCDE, que aparentemente representaria certo abandono das políticas econômicas nacionais em favor de mais inserção na globalização, o que é contraditório com a aspiração de ser chamado a desempenhar um papel mais ativo em instituições multilaterais (G20, CS-ONU) e no G7. A iniciativa de criação do BRIC, depois ampliado para BRICS (e novamente chamado a acolher novos membros), pode ter alguma influência na determinação da política externa do Brasil, pois que o grupo tem como seus membros as duas grandes autocracias anti-Ocidente, Rússia e China.

 

4. Como o Brasil de Lula lida com as sinalizações de reaproximação por parte das nações centrais do Ocidente como os Estados Unidos e os países da União Europeia?

 

PRA: Esse processo já estava em curso anteriormente, pois que o Brasil tinha “relações estratégicas” com todos esses parceiros, inclusive com a China, mas ele se tornou extremamente dependente dos caminhos tensos da nova geopolítica, desde o início da guerra de agressão da Rússia contra a Ucrânia, o que deve impactar na política de “equilíbrio” do Brasil em relação às grandes potências. Ainda é relativamente cedo para determinar como atuará a diplomacia do Brasil, em face das tensões crescentes criadas pela agressividade de Putin e também pela nova assertividade internacional do líder chinês Xi Jinping, especificamente em relação a Taiwan, mas também no campo da disputa hegemônica com os Estados Unidos, uma espécie de nova Guerra Fria econômica e tecnológica.

 

5. Como a nova diplomacia do Brasil tende a lidar com questões diplomáticas complexas, como a questão do Conselho de Segurança da ONU em tempos de tensões beligerantes, bem como as relações com sistemas políticos e econômicos tão distintos do seu próprio que buscam aproximação com o Brasil sob o discurso do advento de uma nova ordem internacional multipolar?

 

PRA: Como membro não permanente do CSNU, o Brasil continuará com sua tradicional demanda de reforma da Carta da ONU e de ampliação do CSNU, mas com escassas possibilidades de avanço nessa questão, dadas as tensões existentes atualmente. A demanda por uma “nova ordem internacional multilateral” também é irrealista, pois ela não se consolidará pela retórica dos grandes parceiros, mas apenas por mudanças substanciais nos grandes vetores de projeção de poder, que são sempre a capacitação econômica e militar, uma combinação de hard e soft power, e mecanismos de influência na agenda global por uma diplomacia sustentada em grandes alavancas de cooperação que só podem se apoiar em recursos abundantes. O Brasil carece de vários desses atributos, embora disponha de uma diplomacia de boa qualidade e alto capacidade de atuação; mas, os grandes problemas internos – extensão da pobreza, extrema desigualdade distributiva, baixa produtividade e escassa capacidade de inovação tecnológica – dificultam uma atuação mais afirmada do Brasil no teatro mundial.

Eventuais ganhos do Brasil nos cenários regional e global serão incrementais, e bastante lentos, pois que os desafios internos (econômicos, sociais e até no plano político, dada a falta de coesão atual entre as elites) são muito maiores do que as amplas oportunidades externas, baseadas no poder do seu agronegócio e no seu pequeno soft power, mais simbólico do que efetivo (a não ser na área ambiental).

 

6. A diplomacia brasileira tende a resgatar uma política de Estado em relação às questões de comércio exterior e do investimento internacional, incluindo a defesa de seus interesses econômicos estratégicos nos próximos anos?

 

PRA: Certamente, como sempre se fez, ainda que com mudanças de estilo e de prioridades, em função das preferências dos governos. O terceiro mandato de Lula deveria buscar essas políticas de Estado, mas os velhos cacoetes nacionalistas e intervencionistas vão tornar mais lento o processo de crescimento, do que seria o caso, por exemplo, via uma adesão afirmada a uma “agenda OCDE” de políticas econômicas e setoriais, que o PT aparentemente recusa. Da mesma forma, a retomada de qualquer “liderança” do Brasil em processos de integração na América do Sul e América Latina dependerá de sua capacitação econômica e propensão a uma abertura unilateral em favor dos países da região, o que também é improvável. Em resumo, os progressos serão lentos e entrecortados por decisões contraditórias, inclusive em função das próprias incertezas que cercam as relações internacionais numa conjuntura de acirramento da disputa entre o chamado Ocidente e as duas grandes autocracias.

 

7. O Brasil já atuou diversas vezes com a ONU para promover a paz e a estabilidade internacional, incluindo a proteção de refugiados e a participação militar e diplomática em missões de paz e negociação de conflitos. Nos últimos anos, o país deixou de adimplir com diversas obrigações perante organismos supranacionais e ainda não superou totalmente uma crise institucional interna, travada entre atores das forças armadas e autoridades civis, culminando na invasão e depredação das sedes dos três Poderes, em 8 de janeiro de 2023. É certo que o Brasil deve retornar como “player” ou ainda é muito cedo para se fazer tal prospecção de cenário?

 

PRA: A maior recessão da história econômica do país, em 2015-2016, deixou um enorme desafio para a recuperação do equilíbrio fiscal do país, assim como a demolição de muitas políticas setoriais durante a péssima gestão Bolsonaro, de 2019 a 2022, fragilizaram a capacidade do Brasil de atuar construtivamente em todas essas áreas, começando pelo fato de que ele tem enormes dívidas com os organismos multilaterais. O Brasil retomará como “player” em certas áreas – multilateralismo ambiental certamente –, mas terá dificuldades para recuperar um papel de líder em sua região, dadas as bases fracas de suas contas públicas. Por outro lado, a provável afirmação de uma “diplomacia presidencial” mais ativa também vai criar dificuldades para a diplomacia profissional, dada a impulsividade do presidente e seus equívocos de julgamento em determinadas questões (como a malograda ideia de um “clube da paz” para lidar com a guerra da Ucrânia, por exemplo). Lula tende a atuar mais em busca de maior promoção pessoal do que propriamente em função dos interesses permanentes do Brasil no cenário global. Trata-se de um método contraditório de atuação, pois que dependente de sua busca de prestígio internacional e mal orientado por certas obsessões do velho PT esquerdista, antiliberal e antiamericano.

O cenário interno ainda é difuso, inclusive por desconfianças recíprocas entre os militares e o atual governo, assim como dos temores dos chamados “mercados” em relação a uma política econômica populista – para atender à clientela tradicional do PT, os pobres, os sindicatos de trabalhadores, as minorias –, que poderia contaminar o equilíbrio das contas públicas nos próximos anos. O que parece certo é que a economia não terá o dinamismo necessário para crescer a taxas vigorosas, pois as grandes reformas (tributária, administrativa, política, previdenciária, indústria e comércio) ainda precisam ser feitas. Sem abertura econômica ou liberalização comercial dificilmente o Brasil realizará uma grande inserção na economia global.

 

 

Paulo Roberto de Almeida

Brasília, 4324: 17 fevereiro 2023, 7 p.

 

Artigo do chanceler Mauro Vieira sobre a guerra na Ucrânia

 É hora de dar voz aos que querem a paz na Ucrânia; leia o artigo do chanceler Mauro Vieira


Países relevantes não diretamente envolvidos no conflito têm papel construtivo a desempenhar agor

Por Mauro Vieira
24/02/2023 | 05h00
Atualização: 24/02/2023 | 07h29

Um ano após a invasão do território ucraniano por forças russas, que deu início à guerra, o impasse armado no terreno, a retórica triunfalista de ambas as partes e as informações de inteligência sobre a perspectiva de novas ofensivas militares predominam. A cobertura da mídia reflete essa realidade, a de um conflito cujas perspectivas de solução imediata são – é preciso reconhecer – escassas.

O presidente Lula tomou posse neste contexto internacional desafiador, e desde então tem deixado clara a posição do Brasil, fiel à nossa tradição diplomática. Como ponto de partida, é inequívoca a condenação da invasão russa e da violação territorial de um Estado soberano, a Ucrânia.

Mas, um ano depois, a compreensão do governo brasileiro é a de que, em meio ao coro mais estridente, e de vozes poderosas, focadas na guerra e na sua forte dimensão geopolítica, chegou a hora de também dar voz aos que querem falar em caminhos para a construção da paz. O presidente Lula fez uma opção clara e pública nesse sentido.

O atual governo não desconhece que esforços anteriores em favor de um entendimento lograram apenas avanços pontuais, em questões humanitárias ou na possibilidade de retomada de exportação de grãos a partir dos portos ucranianos. O Brasil não chega para o debate em curso, portanto, com a pretensão de apresentar uma solução pronta. Chega, sim, para ouvir e para dialogar com os países e blocos dispostos a explorar o caminho do entendimento – e há vários países relevantes entre eles. Estou convencido de que a busca de novos avanços, ainda que pontuais, é passo necessário para iniciativas mais ambiciosas em matéria de paz.

A eventuais críticas internas a essa posição brasileira, em geral por um alegado excesso de protagonismo no cenário internacional a esta altura do conflito, respondo com fatos: seja nos contatos mantidos até agora pelo presidente Lula com 15 Chefes de Estado e de governo, seja nas mais de 40 reuniões que mantive com chanceleres, dirigentes de organismos internacionais e com outros chefes de Estado e de governo, a posição brasileira no conflito é bem compreendida. E vários desses interlocutores chegam a sugerir que ela é bem-vinda a esta altura, ainda que sejam pessimistas quanto ao fim do conflito no futuro mais imediato.

Papel construtivo
Da minha recente participação na Conferência de Segurança de Munique, na semana passada, à margem da qual mantive 21 encontros bilaterais em dois dias, trouxe – e transmiti ao presidente Lula – a convicção de que países relevantes como o Brasil, que não estão diretamente envolvidos no conflito, têm um papel construtivo a desempenhar no debate a partir de agora. Em nenhum dos encontros citados, entre eles com os chanceleres da Ucrânia e de vários outros países, ouvi qualquer crítica à disposição brasileira de explorar, em conjunto com outros interlocutores, caminhos que busquem criar as condições para o fim do conflito. Nossa atuação na deliberação sobre a mais recente resolução da Assembleia Geral da ONU sobre a guerra foi nesse sentido, o de conclamar as partes a cessarem hostilidades, termo que aparece pela primeira vez nos debates, por sugestão do Brasil.

Essa linha de atuação não perde de vista, em nenhum momento, o drama humano que chega diariamente às casas de todos, em especial das comunidades de imigrantes ucranianos e russos e de seus descendentes aqui radicadas. E tampouco ignora o impacto macroeconômico nacional e global da guerra, em particular no que se refere à elevação de custos de insumos para a produção agrícola e dos alimentos.

O Brasil continuará a perseverar nesse caminho, já a partir da reunião ministerial do G-20 em Nova Délhi, na semana que vem, da qual farei parte. E conta, neste momento, com suficiente massa crítica na comunidade internacional para que as vozes em favor do entendimento ganhem maior poder de influência nos movimentos e conversações capazes de evitar, no futuro, novas datas sobre a duração da guerra, como a triste marca de um ano completada hoje.


Ukraine: one year of war - Rosalind Mathieson (Bloomberg)

ONE YEAR OF WAR IN UKRAINE

Rosalind Mathieson

Bloomberg, February 24, 2023

For months, Russian President Vladimir Putin denied he was planning to invade Ukraine. Even as his forces massed on the border in ever-greater numbers, the Kremlin portrayed it as standard exercises.

Just a week before he unleashed his war, Russia was still saying no conflict was coming.

And when he launched his forces in the early hours of Feb. 24, 2022, Putin couldn’t bring himself to use the word “war,” describing it as a mere “special military operation” to support the desires of separatists in Ukraine’s east to be part of Russia. That’s even as his troops and tanks came into Ukraine from the north and marched toward the capital, Kyiv. And as rockets fell on multiple cities across the country.

Despite all the buildup, for many in Ukraine the war came as a shock. Millions jumped in their cars or rushed to railway stations. A year later, many thousands of Ukrainians remain refugees. Thousands of civilians have been killed and driven from their homes by rocket strikes, and the economy is largely kept afloat by outside aid.

But Putin has also failed to achieve his goals. Ukraine has not fallen. President Volodymyr Zelenskiy did not flee; instead, he took his background in show business and became the front-facing cheerleader of his people for the world.

Russia has lost a good slice of the territory it took in the early weeks of fighting. The war is largely bogged down in the east, with both sides running low on weapons and other supplies.

Ukraine’s allies have sent in extraordinary levels of military support. That includes ever-increasingly offensive weapons, with advanced battle tanks the latest to be promised.

Ukrainian soldiers atop an abandoned Russian tank near Kharkiv. Photographer: Yasuyoshi Chiba/Getty Images

And yet the longer that Russia’s forces can hold ground in the east, the harder they will be to dislodge. Ukraine’s allies are strong in their support but as the war drags on, unity may start to fray.

Having cracked down on dissent at home, Putin is having some success in pivoting his rhetoric increasingly to cast Russia as under fundamental attack from the West — particularly the US and European nations.

Big nations like China and India have declined to sign up to the massive sanctions regime on Moscow. Russia’s economy has not collapsed. There are increasing signs that nations in the so-called “Global South” want the war simply to end either way.

The challenge in any war that goes into its second year is sustaining momentum. Time may, unfortunately for Ukraine’s people, end up on Russia’s side. 

O PT gosta de se enganar com suas próprias mentiras - Editorial Estadão

Governando com o fígado

Editorial O Estado de S.Paulo, 21/02/2023

Eivada de ressentimentos e mentiras, a recente resolução do PT é reflexo do que sente e pensa Lula, que parece se sentir credor do País. Não se governa um país com sede de vingança 

O Diretório Nacional do PT aprovou há poucos dias uma resolução eivada de ressentimentos e mentiras, cujo único objetivo parece ser reescrever a história recente do País para lavar a alma da militância depois de uma série de reveses políticos e judiciais sofridos pelo partido. Quem lê aquele documento sai com a nítida impressão de que o Brasil tem uma dívida praticamente impagável com os petistas, sobretudo com a sra. Dilma Rousseff e com o presidente Lula da Silva.

Ora, todos sabemos que Lula da Silva é hoje muito maior do que o PT. Ao longo de mais de quatro décadas, o lulismo se firmou como um movimento político de expressão muito mais relevante que o petismo, se é que, de fato, existe essa distinção. É óbvio, portanto, que o teor da resolução aprovada pelo partido reflete exatamente o que sente e pensa o presidente da República hoje. E isso não é nada bom para o País.

No universo paralelo de Lula e do PT, Dilma Rousseff era a timoneira de um país que ia de vento em popa rumo ao inescapável encontro com seu futuro de paz social e prosperidade econômica até sofrer um “golpe”, em 2016, perpetrado pelas “elites”, pelos “inimigos do povo brasileiro” ou coisa que o valha. Já o partido, nessa visão mendaz da história, teria sido vítima de “falsas denúncias” de corrupção à época dos escândalos do mensalão e do petrolão.

Não é o caso, aqui, de contrapor com uma enormidade de evidências factuais as grosseiras lorotas difundidas pelo PT em sua resolução, até porque seria um trabalho inútil. Petistas fanáticos jamais aceitariam o fato, de resto incontestável, de que o impeachment de Dilma foi conduzido estritamente segundo a Constituição – salvo quando, em seu desfecho, preservou os direitos políticos de Dilma em vez de cassá-los, numa maracutaia típica daqueles tempos esquisitos. Os fiéis da seita lulopetista igualmente ofendem-se quando se demonstram os inúmeros crimes de corrupção passiva, organização criminosa e lavagem de dinheiro cometidos pela patota.

A questão de fundo é menos a resolução do PT – que, afinal, é uma organização privada e pode defender o que bem entender – e mais o que ela representa: os humores de Lula da Silva.

Seja pelo que se depreende do texto da resolução, seja pelos discursos do próprio presidente, que se recusa a descer do palanque mesmo tendo sido eleito para governar no interesse de todos os brasileiros, este terceiro mandato presidencial do petista, o quinto do PT, parece orientado a reparar as “injustiças” que teriam sido cometidas contra o partido e alguns de seus próceres, e não a reconstruir o País e o tecido social após a tragédia que foi o governo de Jair Bolsonaro.

Ao que parece, o triunfo eleitoral de Lula da Silva na difícil eleição presidencial passada, aos olhos dos petistas, tem o condão de autorizar o presidente a privilegiar os interesses particulares do PT e a trair a aspiração maior de muitas forças políticas que o apoiaram no segundo turno da eleição de 2022: a construção de uma frente ampla pela democracia não só para derrotar Bolsonaro, mas também para governar o País.

Se os ressentimentos de Lula da Silva e a sede de vingança que parece animar as lideranças petistas são genuínos ou nada mais que tática para manter a militância mobilizada a despeito de certas decisões impopulares que o governo logo terá de tomar, pouco importa. O fato é que não é assim que se governa um país. Menos ainda um país que precisa tanto se reconciliar e se reunir em torno de consensos mínimos como o Brasil.

O presidente Lula da Silva precisa ser magnânimo e reconhecer a existência de um centro liberal democrático que foi fundamental para sua vitória, por entender que era ele, e não Bolsonaro, a pessoa mais indicada para governar o Brasil pelos próximos quatro anos. Voltar as costas para essas forças políticas é, na prática, aniquilar as chances de reconstrução nacional já no nascedouro.

O rancor nunca foi um bom guia. Do presidente Lula da Silva se espera a grandeza de compreender que, nesta quadra da história do País, é justamente a diversidade que deve prevalecer, não o espírito de corpo.


quinta-feira, 23 de fevereiro de 2023

Número especial da Foreign Affairs sobre um ano de guerra de agressão da Rússia contra a Ucrânia

 

O Congresso americano se intromete no delicado equlíbrio Taiwan-EUA-China - Olivier Knox (WP)

Vai dar muita confusão e mais fervura no ambiente bilateral EUA-China.

The big idea

China committee chair makes secret trip to Taiwan

The Daily 202, The Washington Post, Feb 22, 2023
 By Olivier Knox
with research by Caroline Anders
Rep. Mike Gallagher (R-Wis.) nominates Rep. Kevin McCarthy (R-Calif.) to be speaker on the House floor on Jan. 4,. (AP Photo/Alex Brandon)

Rep. Mike Gallagher (R-Wis.) nominates Rep. Kevin McCarthy (R-Calif.) to be speaker on the House floor on Jan. 4,. (AP Photo/Alex Brandon)

Let’s talk about secret overseas travel with important national security dimensions.

No, this is not about President Biden’s cloak-and-dagger visit to Ukraine. It’s about Rep. Mike Gallagher’s four-day trip to Taiwan over the long weekend, which he did not publicize before going or draw attention to by talking to reporters once there.

And draw attention it would have. The Wisconsin Republican, a counterintelligence officer who did two tours in Iraq as part of a seven-year stretch of active duty in the Marines, chairs the House’s brand new committee on China.

My colleague Ellen Nakashima spoke with Gallagher upon his return. She has the scoop on:

  • What he says most worries officials on the democratically self-governed island (a $19 billion backlog in American weapons deliveries, notably Harpoon anti-ship missiles and F-16 fighter jets. Those systems may not arrive “for years,” Ellen noted.
  • How Gallagher heard from “almost every Taiwanese official” he met that Russia’s expanded war in Ukraine, now nearly a year old, was “a wake-up call” about the need to stockpile advanced weapons.
  • How the trip fits into what he sees as the broader mission of the new committee, which will hold its first hearing on Feb. 28 (he wants to impress upon Americans the need “to arm Taiwan to the teeth to avoid a war,” Gallagher told her.)
A MCCARTHY TRIP?

The mere fact of the trip is interesting. So is the secrecy. When then-Speaker Nancy Pelosi (D-Calif.) traveled to Taiwan in August, Biden confirmed the trip before it was announced, angering China, and declared the Pentagon opposed it. Both steps made it harder for her to go.

 

Pelosi went anyway, becoming the most senior U.S. government official to visit in a quarter century. Once she had left, China fired ballistic missiles near Taiwan and sent warships and fighters near the island to conduct what it called training exercises.

Ellen reported this interesting nugget: “Gallagher, well aware of the furor caused by Pelosi’s visit, said he deliberately kept his own visit quiet to have more productive meetings. A senior U.S. defense official made a visit at the same time, which leaked and was front-page news in Taiwan.”

Speaker Kevin McCarthy (R-Calif.) is expected to make his own visit to Taiwan this year, though his office has not announced definite plans, much less a timeline. China has warned him not to do it. There’s no reason to think he’ll back down.

  • “I don’t know of any active plans by Speaker McCarthy to go. If he wants to go, he certainly can,” Gallagher told Ellen. China doesn’t get a “veto” over congressional travel, he added.

“Gallagher said he intends to hold a select committee hearing in Taiwan— hopefully before summer and then report back to McCarthy on its findings. That would better inform the speaker’s plans, and he and Minority Leader Hakeem Jeffries (D-N.Y.) could visit possibly after Taiwan’s next presidential election in early 2024,” Ellen reported.

(The most provocative time for a McCarthy visit this year would probably be early March, when China’s National People’s Congress holds its annual session, because it would look like a slap in the face to Chinese leader Xi Jinping.)

BIPARTISAN SUPPORT

Gallagher wasn’t the only member of Congress in Taiwan. Huizhong Wu of the Associated Press reported on another delegation, which included Reps. Ro Khanna (D-Calif.), Tony Gonzales (R-Tex.), Jake Auchincloss (D-Mass.) and Jonathan Jackson (D-Ill.)

Support for Taiwan has deep, decades-long bipartisan roots.

“We need to be moving heaven and earth to arm Taiwan to the teeth to avoid a war,” Gallagher told Ellen. “Nobody knows if and when Xi Jinping wakes up and decides to do this but all the more reason to put in place a denial posture as quickly as possible.”

Ingressando num novo vórtice do lulopetismo diplomático, com a guerra da Ucrânia - Paulo Roberto de Almeida e William Waack (Estadão)

 Por profunda ignorância de qual seja o mundo ao qual o Brasil pertence, ou pela prevalência anacrônica de seus instintos antiamericanos (aprendidos e apreendidos nos seus contatos com seus amigos e financiadores cubanos), Lula e o PT envolvem o Brasil na trama anti-Ocidente manipulada pelas duas grandes autocracias do BRICS, um tremendo erro estratégico da canhestra diplomacia lulopetista, que ainda vai causar muita dor de cabeça à diplomacia profissional do Itamaraty. Estamos ingressando num bolsolavismo diplomático às avessas.

Paulo Roberto de Almeida

Governo Lula não quer entender a natureza do conflito na Ucrânia?

A velha ordem internacional acabou, colocando o Brasil diante de complexas escolhas

William Waack

O Estado de S. Paulo, 22/02/2023

https://www.estadao.com.br/politica/william-waack/governo-lula-nao-quer-entender-a-natureza-do-conflito-na-ucrania/?utm_source=estadao%3Afacebook&utm_medium=link&fbclid=IwAR3_piT3HJjSpP-smnOfCvYVSv2Bmi_SuLZwaVVG9h364JdG2u_LG8bjT0g


Até aqui o governo Lula não parece ter entendido a natureza do conflito na Ucrânia. Ou pretende não entender.

Não se trata de ação armada fruto de “um equívoco”, como o presidente descreve a invasão deflagrada por Putin. Na sua essência, é parte relevante da contestação da ordem que vigorou desde a 2.ª Guerra Mundial.

A ascensão veloz da China ao papel de desafiadora do “hegemon” (EUA), por si só, já seria o grande fator de contestação. É o que faz clássicos do hiper-realismo duvidarem que NÃO venha a ocorrer grave conflito militar entre as superpotências.

Mas tanto China como Rússia “aceleraram” o processo. Ambas enxergam o Ocidente como uma grandeza em declínio. Especialmente Putin juntou o velho imperialismo russo de mais de dois séculos com seu entendimento da “decadência moral” dos países ocidentais.

O resultado é uma profunda transformação na qual o que parecia garantido – um regime internacional baseado em respeito a regras e integração cada vez maior de comércio e cadeias produtivas, a tal globalização – está recuando na própria substância.


Nesse novo contexto, multilateralismo e “governança” global passaram a ser figuras de retórica, às quais o governo brasileiro parece abraçado. Assim, é difícil imaginar um eixo sul-sul, em oposição a um “norte”, quando se percebe que pelo menos dois integrantes dos Brics estão de um lado no conflito, e não apenas na Ucrânia.

A guerra na Ucrânia não é um episódio isolado, diante do qual vamos é ficar quietinhos, aproveitar as oportunidades, tratar de não ofender ninguém e posar de bom moço repetindo platitudes inúteis sobre “paz” e oferecendo-se para negociar entre beligerantes – o caminho trilhado por Lula até aqui.

São forças históricas de imensa amplitude em ação, e que conduzem países como o Brasil (potência média de influência regional) não propriamente a escolher um “lado”. Mas, sim, a optar por um “mundo”.

A guerra em curso até aqui desmentiu os cálculos estratégicos de China e Rússia, que presumiam sobretudo incapacidade de ação conjunta e coesão por parte do adversário. O campo de batalha da Ucrânia demonstrou não só a atual superioridade tecnológica ocidental, que a autocracia chinesa é capaz de superar. A lição fundamental é a de que sociedades abertas no fundo mudam mais rápido, adaptam-se melhor (a Alemanha abandonou o pacifismo) e têm melhor desempenho na relação entre poder civil e operações militares.

O que se explica pelos valores em torno dos quais essas sociedades se desenvolveram e prosperaram. O Brasil é parte do mundo ocidental.