Mais recente artigo publicado (o original em português encontra-se ao final):
4324. “Desafios ao Brasil no novo contexto internacional de tensões geopolíticas”, Brasília, 16 fevereiro 2023, 7 p. Respostas a questões colocadas pelo jornalista Artur Ambrogi . Traduzido para o italiano por Ruggero Gambacurta-Scopello em 20/02/2023. Publicado na página de Strumenti Politici (Itália; 24/02/2023; link: https://strumentipolitici.it/le-sfide-per-il-brasile-nel-nuovo-contesto-internazionale-di-tensioni-geopolitiche/). Relação de Publicados n. 1495.
Le sfide per il Brasile nel nuovo contesto internazionale di tensioni geopolitiche
Con la fine del governo Bolsonaro e il ritorno di Lula da Silva alla presidenza della Repubblica del Brasile, il diplomatico e professore universitario Paulo Roberto de Almeida ha concesso un’intervista alla nostra testata per analizzare la politica estera del più grande paese latino-americano.
– In che modo il Brasile ha tradizionalmente definito i propri interessi nazionali nello scenario geopolitico attraverso la diplomazia? E in che modo governi più recenti hanno mantenuto o interrotto questa tradizione?
Il processo di formulazione delle politiche nazionali e di concretizzazione pratica degli interessi nazionali a livello estero – regionale e internazionale – non è diverso in Brasile da quello che si verifica tradizionalmente in altri Paesi che hanno Stati funzionali, dotati di una diplomazia che opera secondo gli schemi abituali delle relazioni internazionali: il punto di partenza è l’élite dominante a livello economico, che in genere definisce le élites dominanti a livello politico, cioè i rappresentanti di questi settori nel governo (Esecutivo e Legislativo, soprattutto), ottenendo un mix di politiche macro e settoriali che non corrispondono necessariamente agli interessi nazionali in senso lato, bensì agli interessi dei gruppi dominanti nella politica nazionale e nello Stato (cioè le istituzioni funzionali dell’apparato governativo).
Nel caso del Brasile, a differenza degli altri Paesi della regione emersi dal colonialismo iberico, esistevano, già prima dell’indipendenza, delle istituzioni che funzionavano correttamente quando la corte portoghese si trasferì a Rio nel 1808, fuggendo la momentanea dominazione napoleonica della metropoli. Tra il 1808 e il 1821 tutte le politiche applicate al grande impero coloniale portoghese furono formulate a Rio de Janeiro, anche se non necessariamente nell’interesse della sua più grande colonia e dei suoi abitanti. Ma la costituzione e il funzionamento di un governo dotato dei ministeri tipici dell’epoca – tra cui la Marina, la Guerra, gli Interni (Giustizia) e gli Affari Esteri -, contribuirono moltissimo a far sì che, al momento della conquista dell’autonomia politica nazionale, nel 1822, il governo brasiliano iniziasse a funzionare con ministri e funzionari che stavano già operando per elevare il Brasile alla categoria di “Regno unito a quello del Portogallo”, avvenuta nel 1815, ai fini della partecipazione del Regno del Portogallo al Congresso di Vienna dello stesso anno.
Il primo cancelliere brasiliano, José Bonifácio de Andrada e Silva, fu, infatti, il primo brasiliano – o suddito portoghese nato in Brasile – in un gabinetto portoghese del governo provvisorio in funzione sotto il comando del principe reggente D. Pedro, figlio del re D. João VI, dall’inizio del 1822. José Bonifácio intraprese una politica estera decisamente incentrata sugli interessi del Brasile, anche se la diplomazia, dal punto di vista funzionale e umano, era piuttosto precaria dopo il ritorno della corte in Portogallo nel 1821. Tuttavia, questa prima politica estera brasiliana si interruppe con la destituzione e l’esilio di José Bonifácio alla fine del 1823. Da quel momento in poi, la politica estera di Pedro sarà in parte condizionata dagli affari di successione portoghesi e dal regime politico dell’ex metropoli, fino all’abdicazione dell’imperatore nel 1831. In questo primo periodo, la politica estera fu in parte dominata dalla Guerra Cisplatina (il futuro Uruguay) e, in larga misura, dalle questioni del traffico e della schiavitù, sotto la forte pressione della potenza dell’epoca, la Gran Bretagna. A partire dalle reggenze (1831-1840), la politica estera fu più americanista che europea e iniziò il reclutamento e la formazione di personale diplomatico, che rappresentava ovviamente l’élite schiavista e latifondista.
Nella Repubblica oligarchica della fine del XIX secolo e della prima metà del XX secolo, la politica estera e la diplomazia erano dominate dagli interessi delle élites legate al caffè – il Brasile era allora, come lo è tuttora, il più grande produttore di caffè al mondo ed un esportatore quasi monopolistico -, con alcuni rappresentanti degli altri settori agrari e delle poche industrie esistenti. A partire dai processi bismarckiani di modernizzazione – industrializzazione, urbanizzazione, democratizzazione – dalla seconda metà del secolo, gli interessi nazionali, in politica interna ed estera, saranno retti ed espressi da un mix di élites attive nella politica nazionale, così formato: un numero sempre più alto di industriali (di cui molti immigrati), i grandi proprietari terrieri (sempre presenti in tutte le fasi della storia della nazione), i militari (estremamente attivi dalla fine dell’Impero e durante le varie fasi della travagliata Repubblica) e altri settori delle élites (grandi imprenditori, banchieri, l’alta burocrazia dello Stato, tra cui la magistratura, quest’ultima essendo considerata come un’élite aristocratica nel servizio pubblico brasiliano).
Durante questo lungo ciclo di progresso materiale ed educativo a partire dagli anni Trenta, sono questi gli interessi che definiscono il ruolo del Brasile nel sistema mondiale e nella partecipazione alla politica mondiale, e un’unica ideologia guida l’insieme dei settori a livello interno ed estero della governanza brasiliana: l’ideologia dello sviluppo, che significa la costruzione di un’economia di mercato prettamente nazionale (da qui il forte nazionalismo e persino l’introversione delle politiche economiche) e, a livello estero, l’immancabile ricerca di autonomia in politica estera attraverso una burocrazia diplomatica reclutata e formata in modo eccellente in quanto dispone, dal 1946, di un’accademia diplomatica che detiene il monopolio della selezione e della formazione di un personale di alta qualità intellettuale.
Nel periodo recente, queste caratteristiche sono rimaste pressoché intatte, nonostante piccole rotture di orientamento durante i mandati lulopetisti (2003-2016), dovute alle caratteristiche, in una certa misura di parte (di sinistra), di alcuni orientamenti di politica estera, e avendo subito un impatto ancor più considerevole dalla vera e propria rottura introdotta dal governo Bolsonaro (2019-2022), che ha corrisposto al parziale abbandono della ricerca di autonomia in politica estera in cambio di un’associazione mal pensata e poco strutturata con gli Stati Uniti – o più precisamente con il presidente Donald Trump – e di un’inversione di rotta in alcune politiche (quella ambientale, ad esempio), in un completo disallineamento con gli orientamenti generali della diplomazia. Nella fase attuale, in cui il PT (2023-2026) è tornato al potere, gli interessi nazionali e la politica estera continueranno ad avere una posizione centrale, influenzati dall’ideologia di sinistra del presidente Lula, ma in un gioco di contrattazione con le tradizionali élites dominanti (economiche e politiche).
In breve, gli interessi nazionali del Brasile nella sfera estera continueranno ad essere segnati da questa ideologia di sviluppo, dalla ricerca di autonomia nell’economia e nella politica estera, con una partecipazione significativa del suo corpo diplomatico nell’attuazione delle decisioni del governo centrale, ma anche da una grande esitazione nel definire le alleanze estere, che si riflette in un peso relativamente elevato del Paese nell’economia mondiale, ma in una scarsa partecipazione ai processi decisionali a livello globale.
– Qual è l’approccio del Brasile alle questioni di sicurezza e difesa in America Latina e nel mondo? I governi Bolsonaro e Lula hanno qualche somiglianza in questo percorso o le loro visioni ideologiche antagoniste li collocano sempre in campi geopolitici opposti?
Fin dall’inizio di una diplomazia di professione, moderna e consapevole – ai tempi del Barone di Rio Branco, all’inizio del XX secolo – il Brasile ha avuto un approccio alle questioni di sicurezza e di difesa basato sul rispetto del diritto internazionale e, sempre più, sul multilateralismo. L’integrazione con l’America Latina è un fenomeno relativamente recente, soltanto mezzo secolo, e non si è ancora tradotto in istituzioni stabili che convergano con gli interessi nazionali del Brasile. Tuttavia, una posizione che è stata adottata da vari governi dalla fine della Seconda guerra mondiale è quella di deviare le tensioni tra le grandi potenze mondiali, una posizione di equilibrio generalmente allineata con gli interessi del grande partner emisferico, gli Stati Uniti. Più recentemente, la crescente preminenza economica della Cina ha diluito l’influenza degli interessi americani nella politica brasiliana, e la ricerca di una sempre maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti ha condotto i governi del PT a proporre schemi e meccanismi di concertazione e coordinamento regionale che si allontanano dalle vecchie istituzioni emisferiche (l’OSA, ad esempio), a favore della creazione di nuovi strumenti specificatamente regionali (Unasur, Celac), anche nell’ambito della difesa, come il CDS, il Consiglio di Difesa Sudamericano, per la cooperazione strategica e militare con i Paesi sudamericani.
Il governo Bolsonaro ha rappresentato, appunto, una rottura con tutte queste iniziative, abbandonando questa cooperazione in cambio di un’illusoria alleanza con gli Stati Uniti (rappresentati esclusivamente dal presidente Trump), e una fantasmagorica coalizione di Paesi conservatori di estrema destra, che si suppone combattano contro il fantasma del “globalismo” (che in termini diplomatici ha rappresentato l’opposizione agli schemi multilaterali, espressione di estrema stupidità). Il ritorno al potere di un governo del PT consentirà la ripresa delle iniziative del periodo 2003-2016 ma le condizioni stesse dell’America Latina sono molto cambiate, con una visibile frammentazione dei processi di integrazione, oltre al proseguimento dei vecchi schemi di inserimento nell’economia globale (la specializzazione nelle materie prime, ad esempio), che rappresentano una perdita di dinamismo e il persistere della povertà.
– Come affrontano attualmente i diplomatici brasiliani le tensioni geopolitiche in ambito economico in questa fase di governo post-Bolsonaro con il ritorno di Lula alla presidenza (BID, OMC, richiesta di adesione all’OCSE, affinità e differenze con i Paesi del Mercosur, Banca BRICS, ecc.)
Vi sono sfide colossali per reinserire il Brasile nel mondo, dopo i governi abbastanza attivi in diplomazia, che sono stati quelli di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) e di Lula-PT (2003-2016), e portate avanti, con qualche difficoltà, dal governo di Michel Temer (2016-2018), dopo la grande crisi che coinvolse la presidente Dilma Rousseff nel 2014-2015. Non vi è ancora una linea dominante nelle politiche nazionali e nella politica estera, poiché le condizioni per l’azione del Brasile nel mondo sono state alquanto alterate dalla disastrosa presidenza Bolsonaro (soprattutto nel campo delle politiche estere, in particolare quella ambientale), ma anche dalla rottura del governo Trump con la politica globale statunitense.
L’attuale governo del PT è favorevole alla ripresa dei processi di integrazione regionale, ma in una situazione di dispersione degli sforzi e di orientamenti disparati nei vari Paesi; allo stesso tempo è riluttante per quanto concerne l’adesione all’OCSE, che apparentemente rappresenterebbe un certo abbandono delle politiche economiche nazionali a favore di un maggiore inserimento nella globalizzazione, in contraddizione con l’aspirazione a essere chiamati a svolgere un ruolo più attivo nelle istituzioni multilaterali (G20, CS-ONU) e nel G7. L’iniziativa di creare il BRIC, poi allargato a BRICS (e nuovamente chiamato ad accogliere nuovi membri), potrebbe avere una certa influenza nel determinare la politica estera del Brasile, dato che il gruppo ha come membri le due grandi autocrazie anti-occidentali, Russia e Cina.
– Come si pone il Brasile di Lula di fronte ai segnali di riavvicinamento da parte di nazioni centro-occidentali come gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea?
Questo processo era già in corso in precedenza, dal momento che il Brasile aveva “relazioni strategiche” con tutti questi partner, compresa la Cina, ma è diventato estremamente dipendente dai percorsi della nuova geopolitica dall’inizio della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, che dovrebbe avere un impatto sulla politica di “equilibrio” del Brasile nella sua relazione alle grandi potenze.
È ancora relativamente presto per prevedere come agirà la diplomazia brasiliana di fronte alle crescenti tensioni create dall’aggressività di Putin e anche dalla nuova assertività internazionale del leader cinese Xi Jinping, in special modo per quanto concerne Taiwan, ma anche nel campo della disputa egemonica con gli Stati Uniti, una sorta di nuova guerra fredda economica e tecnologica.
– In che modo la nuova diplomazia brasiliana tende ad affrontare questioni diplomatiche complesse, come la questione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in tempi di tensioni belliche, così come le relazioni con sistemi politici ed economici così diversi dal proprio che cercano un avvicinamento al Brasile sotto il discorso dell’avvento di un nuovo ordine internazionale multipolare?
In qualità di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Brasile continuerà con la sua tradizionale richiesta di riforma della Carta delle Nazioni Unite e di allargamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma con scarse possibilità di avanzare su questo tema, date le tensioni attualmente esistenti.
Anche la richiesta di un “nuovo ordine internazionale multilaterale” non è realistica, poiché non sarà consolidata dalla retorica dei principali partner, ma solo da cambiamenti sostanziali nei principali vettori di proiezione del potere, che sono sempre le capacità economiche e militari, una combinazione di hard e soft power, e meccanismi di influenza sull’agenda globale attraverso la diplomazia sorretta da grandi leve di cooperazione che possono essere sostenute solo da risorse abbondanti.
Il Brasile manca di molti di questi attributi, sebbene abbia una diplomazia di buona qualità e un’elevata capacità di azione; ma i grandi problemi interni – aumento della povertà, estrema disuguaglianza nella distribuzione, bassa produttività e scarsa capacità di innovazione tecnologica – rendono difficile per il Paese agire in modo più assertivo nel teatro globale.
Gli eventuali profitti del Brasile negli scenari regionali e globali saranno incrementali e piuttosto lenti, poiché le sfide interne (economiche, sociali e anche politiche, data l’attuale mancanza di coesione tra le élites) sono molto più grandi delle ampie opportunità estere, basate sul potere del suo agroalimentare e sul suo piccolo soft power, più simbolico che effettivo (tranne che in campo ambientale).
– La diplomazia brasiliana tende a salvare una politica statale in relazione alle questioni del commercio estero e degli investimenti internazionali, compresa la difesa dei suoi interessi economici strategici nei prossimi anni?
Certamente, come è sempre stato fatto, anche se con cambiamenti di stile e di priorità, a seconda delle preferenze dei governi. Il terzo mandato di Lula dovrebbe perseguire queste politiche statali, ma i vecchi schemi nazionalisti e interventisti rallenteranno il processo di crescita, più di quanto avverrebbe, ad esempio, attraverso una decisa adesione ad una “agenda OCSE” di politiche economiche e settoriali che il PT apparentemente rifiuta.
Allo stesso modo, la ripresa di un’eventuale “leadership” del Brasile nei processi di integrazione dell’America meridionale e latina dipenderà dal suo potere economico e dalla sua propensione ad un’apertura unilaterale a favore dei Paesi della regione, anch’essa improbabile. Insomma, i progressi saranno lenti e intervallati da decisioni contraddittorie, anche a causa delle incertezze che minacciano le relazioni internazionali in un momento in cui la disputa tra il cosiddetto Occidente e le due grandi autocrazie si fa più intensa.
– Il Brasile ha già agito più volte con le Nazione unite per promuovere la pace e la stabilità internazionale, tra cui la protezione dei rifugiati e la partecipazione militare e diplomatica alle missioni di pace e alla negoziazione dei conflitti. Negli ultimi anni, il ha ancora superato del tutto una crisi istituzionale interna, che si è consumata tra attori delle forze armate e autorità civili, culminata nell’invasione e depredazione della sede dei tre rami del governo l’8 gennaio 2023. È certo che il Brasile debba tornare protagonista o è ancora troppo presto per prospettare uno scenario del genere?
La più grande recessione nella storia economica del Paese, nel 2015-2016, ha lasciato in eredità una sfida enorme per il recupero dell’equilibrio fiscale del Paese, così come la demolizione di molte politiche settoriali durante la disastrosa amministrazione del 2019-2022 di Bolsonaro ha indebolito la capacità del Brasile di agire in modo costruttivo in tutti questi settori, a partire dal fatto che ha enormi debiti con gli organismi multilaterali. Il Brasile riprenderà il suo ruolo di “player” in alcuni ambiti – sicuramente il multilateralismo ambientale – ma faticherà a riconquistare un ruolo di primo piano nella sua regione, considerando le deboli fondamenta dei suoi conti pubblici.
D’altra parte, la probabile affermazione di una “diplomazia presidenziale” più attiva creerà difficoltà anche alla diplomazia di professione, vista l’impulsività del Presidente ed i suoi errori di valutazione su alcune questioni (come la sciagurata idea di un “club della pace” per affrontare la guerra in Ucraina, ad esempio). Lula tende ad agire più alla ricerca di una maggiore promozione personale che in funzione degli interessi permanenti del Brasile sulla scena globale. Si tratta di un metodo d’azione contraddittorio, in quanto dipendente dalla sua ricerca di prestigio internazionale e fuorviato da alcune ossessioni del vecchio PT di sinistra, antiliberale e antiamericano.
Lo scenario interno è ancora poco chiaro, anche per la sfiducia reciproca tra i militari e l’attuale governo, oltre che per i timori dei cosiddetti “mercati” nei confronti di una politica economica populista – al servizio delle tradizionali clientele del PT, dei poveri, dei sindacati, delle minoranze – che potrebbe danneggiare l’equilibrio dei conti pubblici nei prossimi anni. Quello che sembra certo è che l’economia non avrà il dinamismo necessario per crescere vigorosamente, perché le grandi riforme (fiscale, amministrativa, politica, previdenziale, industriale e commerciale) devono ancora essere effettuate. Senza l’apertura economica o la liberalizzazione del commercio, sarà difficile per il Brasile ottenere un grande inserimento nell’economia globale.
Contatti Intervistato: Paulo Roberto de Almeida è Diplomatico, professore universitario (www.pralmeida.org; diplomatizzando.blogspot.com; pralmeida@me.com).
Traduzione del Portoghese brasiliano per Ruggero Gambacurta-Scopello.
Desafios ao Brasil no novo contexto internacional de tensões geopolíticas
Paulo Roberto de Almeida
Diplomata, professor
(www.pralmeida.org; diplomatizzando.blogspot.com)
Respostas a questões colocadas por Artur Ambrogi.
1. Como tradicionalmente o Brasil define seus interesses nacionais no cenário geopolítico por meio da diplomacia? E, como os governos mais recentes mantém ou rompem com essa tradição?
PRA: O processo de formulação de políticas nacionais e da implementação prática dos interesses nacionais no plano externo – regional e internacional – não é diferente, no Brasil, do que ocorre tradicionalmente nos demais países que possuem Estados funcionais, dotados de uma diplomacia atuante segundo os padrões usuais nas relações internacionais: parte-se da elite dominante no plano econômico, que geralmente define as elites dominantes no plano político, ou seja, os representantes desses setores no governo (Executivo e Legislativo, sobretudo), obtendo-se, a partir daí um mix de políticas macro e setoriais que correspondem não necessariamente aos interesses nacionais no sentido lato, mas aos interesses dos grupos dominantes na política nacional e no Estado (ou seja, as instituições funcionais do aparato de governo).
No caso do Brasil, à diferença dos demais países da região saídos do colonialismo ibérico, o país contou, ainda antes da independência, com instituições já montadas e funcionando razoavelmente a partir da transferência da corte portuguesa para o Rio de Janeiro em 1808, fugida da dominação napoleônica temporária na metrópole. Entre 1808 e 1821 todas as políticas aplicadas ao grande império colonial português foram formuladas no Rio de Janeiro, ainda que não necessariamente no interesse da sua maior colônia e dos seus habitantes. Mas, a constituição e funcionamento de um governo dotado dos ministérios típicos da época – entre eles Marinha, Guerra, Interior (Justiça) e Negócios Estrangeiros –, contribuiu enormemente para que, no momento da conquista da autonomia política nacional, em 1822, o governo brasileiro passasse a funcionar com ministros e funcionários que já estavam trabalhando desde a elevação do Brasil à categoria de “Reino Unido ao de Portugal”, o que foi feito em 1815, para fins da participação do Reino de Portugal no Congresso de Viena daquele ano.
O primeiro chanceler brasileiro, José Bonifácio de Andrada e Silva, era, aliás, o primeiro brasileiro – ou súdito português nascido no Brasil – num gabinete português de governo provisório funcionando sob o comando do príncipe regente D. Pedro, filho do rei D. João VI, a partir do início de 1822. Ele assumiu uma política externa voltada decididamente para os interesses do Brasil, ainda que a diplomacia, pelo lado funcional e humano, fosse bastante precária, depois do retorno da corte a Portugal em 1821. Mas, essa primeira política externa brasileira foi descontinuada com o afastamento e exílio de José Bonifácio no final de 1823. A partir daí, a política externa de D. Pedro será, em parte, dominada pelos assuntos portugueses da sucessão e do regime político na antiga metrópole, até a abdicação do imperador em 1831. Nesse primeiro período, a política externa esteve parcialmente dominada pela Guerra da Cisplatina (o futuro Uruguai) e, em grande medida, pelas questões do tráfico e da escravidão, sob intensa pressão da potência da época, a Grã-Bretanha. A partir das regências (1831-1840) a política externa será mais americanista do que europeia, e tem início o recrutamento e treinamento do pessoal da diplomacia, necessariamente representantes da elite escravocrata e fundiária.
Na República oligárquica do final do século XIX e primeira metade do século XX, a política externa e a diplomacia serão dominadas pelos interesses das elites ligadas ao café – o Brasil era então, como ainda é, o maior produtor do mundo e exportador quase monopolista –, com alguns outros representantes dos demais setores agrários e das poucas indústrias existentes. A partir dos processos bismarckianos de modernização – industrialização, urbanização, democratização – desde a segunda metade do século, os interesses nacionais, na política interna e na política externa, serão dominados e expressos por um mix de elites atuantes na política nacional, crescentemente os industriais (muitos imigrantes), ainda os grandes proprietários de terras (sempre presentes em todas as etapas da história da nação), os militares (extremamente atuantes desde o final do Império e durante as várias fases da conturbada República) e outros setores das elites (grandes comerciantes, banqueiros, alta burocracia do Estado, entre eles a magistratura, quase uma elite aristocrática no serviço público brasileiro).
Durante todo esse longo ciclo de progressos materiais e educacionais desde os anos 1930, são esses os interesses que definem o papel do Brasil no sistema mundial e na participação da política mundial, e uma única ideologia guia todos esses setores no plano interno e externa da governança brasileira: a ideologia do desenvolvimento, que significa a construção de uma economia de mercado propriamente nacional (daí o forte nacionalismo e mesmo introversão das políticas econômicas) e, no plano externo, a busca sempre presente de autonomia na política externa por meio de uma burocracia diplomática muito bem recrutada e treinada, pois que dispondo, desde 1946, de uma academia diplomática que detém o monopólio da seleção e formação de um pessoal de alta qualidade intelectual.
No período recente, essas características se mantiveram quase que intactas, a despeito de pequenas rupturas de orientação durante os mandatos lulopetistas (2003-2016), em função das características parcialmente partidárias (de esquerda) de algumas orientações de política externa, e bem mais impactadas pela verdadeira ruptura introduzida pelo governo Bolsonaro (2019-2022), que correspondeu ao abandono parcial da busca dessa autonomia na política externa em troca de uma associação mal informada com os Estados Unidos – ou mais especificamente com o presidente Donald Trump – e de uma inversão em determinadas políticas (a ambiental, por exemplo), num completo desalinhamento com as orientações gerais da diplomacia profissional. Na fase atual, de retorno do PT ao poder (2023-2026), os interesses nacionais e a política externa vão continuar sob a influência da ideologia esquerdista do presidente Lula, mas num jogo de barganhas com as elites dominantes (econômicas e políticas) tradicionais.
Resumindo, os interesses nacionais brasileiros no plano externo continuarão a ser marcados por essa ideologia desenvolvimentista, pela busca de autonomia na economia e na política externa, com uma participação expressiva do corpo profissional de sua diplomacia na implementação das decisões do governo central, mas também por grandes hesitações na definição de alianças externas, o que se reflete num peso relativamente alto do país na economia mundial, mas por pequena participação nos processos decisórios em nível global.
2. Qual é a abordagem do Brasil em relação as questões de segurança e defesa na América Latina e no mundo? Os governos Bolsonaro e Lula possuem alguma semelhança nessa senda ou suas visões ideológicas antagônicas os colocam sempre em campos geopolíticos opostos?
PRA: Desde o início de uma diplomacia profissional moderna e consciente de si – nos tempos do Barão do Rio Branco, ao início do século XX –, o Brasil tem uma abordagem das questões de segurança e defesa apoiadas no respeito ao Direito Internacional e, crescentemente, no multilateralismo. A integração com a América Latina é um fenômeno relativamente recente, do último meio século apenas, e ainda não se traduziu em instituições estáveis e convergentes com os interesses nacionais do Brasil, mas uma postura seguidamente adotada pelos vários governos desde o final da Segunda Guerra Mundial é o do afastamento das tensões entre as grandes potências do mundo, uma posição de equilíbrio geralmente alinhada com os interesses do grande parceiro hemisférico, os Estados Unidos. Mais recentemente, a crescente preeminência econômica da China diluiu a influência dos interesses americanos na política brasileira, e a busca de uma autonomia ainda maior em relação aos Estados Unidos levou os governos do PT a proporem esquemas e mecanismos de consulta e coordenação regional distantes das antigas instituições hemisféricas (a OEA, por exemplo), em benefício da criação de novos instrumentos (Unasul, Celac) especificamente regionais, inclusive na área da defesa, como o CDS, Conselho de Defesa Sul-Americano, para a cooperação na área estratégica e militar com os países sul-americanos.
O governo Bolsonaro representou, justamente, uma ruptura com todas essas iniciativas, pois que significou o abandono dessa cooperação, em troca de uma ilusória aliança com os Estados Unidos (representados pelo presidente Trump exclusivamente) e de uma fantasmagórica coalizão de países conservadores de extrema-direita, supostamente em luta contra o fantasma do “globalismo” (o que no plano da diplomacia representou a oposição aos esquemas multilaterais, uma expressão de burrice extrema). A volta de um governo do PT ao poder permitirá a retomada das iniciativas do período 2003-2016, mas as próprias condições na América Latina se modificaram bastante, com uma fragmentação visível dos processos de integração, assim como a continuidade dos velhos padrões de inserção na economia global (especialização em commodities, por exemplo), o que representa perda de dinamismo e preservação da pobreza.
3. Como os diplomatas do Brasil lidam atualmente com as tensões geopolíticas em âmbito econômico nessa fase pós-governo Bolsonaro com o retorno de Lula à presidência (BID, OMC, pedido de ingresso na OCDE, afinidades e diferenças com países do Mercosul, Banco dos BRICS, etc.)?
PRA: Existem enormes desafios para a reinserção do Brasil no mundo, depois dos governos bastantes ativos na diplomacia, que foram justamente os de Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) e Lula-PT (2003-2016), e continuados com alguma dificuldade no governo Michel Temer (2016-2018), depois da grande crise deixada pela presidente Dilma Rousseff em 2014-2015. Ainda não se tem uma linha dominante nas políticas nacionais e na política externa, uma vez que as condições de atuação do Brasil no mundo foram bastantes alteradas pela desastrosa presidência Bolsonaro (sobretudo no terreno das políticas externas, basicamente a ambiental), mas também pela ruptura do governo Trump em relação à política global dos EUA. O atual governo do PT é a favor da retomada dos processos de integração regional, mas numa conjuntura de dispersão dos esforços e orientações díspares nos diversos países; ao mesmo tempo tem relutância com respeito ao ingresso na OCDE, que aparentemente representaria certo abandono das políticas econômicas nacionais em favor de mais inserção na globalização, o que é contraditório com a aspiração de ser chamado a desempenhar um papel mais ativo em instituições multilaterais (G20, CS-ONU) e no G7. A iniciativa de criação do BRIC, depois ampliado para BRICS (e novamente chamado a acolher novos membros), pode ter alguma influência na determinação da política externa do Brasil, pois que o grupo tem como seus membros as duas grandes autocracias anti-Ocidente, Rússia e China.
4. Como o Brasil de Lula lida com as sinalizações de reaproximação por parte das nações centrais do Ocidente como os Estados Unidos e os países da União Europeia?
PRA: Esse processo já estava em curso anteriormente, pois que o Brasil tinha “relações estratégicas” com todos esses parceiros, inclusive com a China, mas ele se tornou extremamente dependente dos caminhos tensos da nova geopolítica, desde o início da guerra de agressão da Rússia contra a Ucrânia, o que deve impactar na política de “equilíbrio” do Brasil em relação às grandes potências. Ainda é relativamente cedo para determinar como atuará a diplomacia do Brasil, em face das tensões crescentes criadas pela agressividade de Putin e também pela nova assertividade internacional do líder chinês Xi Jinping, especificamente em relação a Taiwan, mas também no campo da disputa hegemônica com os Estados Unidos, uma espécie de nova Guerra Fria econômica e tecnológica.
5. Como a nova diplomacia do Brasil tende a lidar com questões diplomáticas complexas, como a questão do Conselho de Segurança da ONU em tempos de tensões beligerantes, bem como as relações com sistemas políticos e econômicos tão distintos do seu próprio que buscam aproximação com o Brasil sob o discurso do advento de uma nova ordem internacional multipolar?
PRA: Como membro não permanente do CSNU, o Brasil continuará com sua tradicional demanda de reforma da Carta da ONU e de ampliação do CSNU, mas com escassas possibilidades de avanço nessa questão, dadas as tensões existentes atualmente. A demanda por uma “nova ordem internacional multilateral” também é irrealista, pois ela não se consolidará pela retórica dos grandes parceiros, mas apenas por mudanças substanciais nos grandes vetores de projeção de poder, que são sempre a capacitação econômica e militar, uma combinação de hard e soft power, e mecanismos de influência na agenda global por uma diplomacia sustentada em grandes alavancas de cooperação que só podem se apoiar em recursos abundantes. O Brasil carece de vários desses atributos, embora disponha de uma diplomacia de boa qualidade e alto capacidade de atuação; mas, os grandes problemas internos – extensão da pobreza, extrema desigualdade distributiva, baixa produtividade e escassa capacidade de inovação tecnológica – dificultam uma atuação mais afirmada do Brasil no teatro mundial.
Eventuais ganhos do Brasil nos cenários regional e global serão incrementais, e bastante lentos, pois que os desafios internos (econômicos, sociais e até no plano político, dada a falta de coesão atual entre as elites) são muito maiores do que as amplas oportunidades externas, baseadas no poder do seu agronegócio e no seu pequeno soft power, mais simbólico do que efetivo (a não ser na área ambiental).
6. A diplomacia brasileira tende a resgatar uma política de Estado em relação às questões de comércio exterior e do investimento internacional, incluindo a defesa de seus interesses econômicos estratégicos nos próximos anos?
PRA: Certamente, como sempre se fez, ainda que com mudanças de estilo e de prioridades, em função das preferências dos governos. O terceiro mandato de Lula deveria buscar essas políticas de Estado, mas os velhos cacoetes nacionalistas e intervencionistas vão tornar mais lento o processo de crescimento, do que seria o caso, por exemplo, via uma adesão afirmada a uma “agenda OCDE” de políticas econômicas e setoriais, que o PT aparentemente recusa. Da mesma forma, a retomada de qualquer “liderança” do Brasil em processos de integração na América do Sul e América Latina dependerá de sua capacitação econômica e propensão a uma abertura unilateral em favor dos países da região, o que também é improvável. Em resumo, os progressos serão lentos e entrecortados por decisões contraditórias, inclusive em função das próprias incertezas que cercam as relações internacionais numa conjuntura de acirramento da disputa entre o chamado Ocidente e as duas grandes autocracias.
7. O Brasil já atuou diversas vezes com a ONU para promover a paz e a estabilidade internacional, incluindo a proteção de refugiados e a participação militar e diplomática em missões de paz e negociação de conflitos. Nos últimos anos, o país deixou de adimplir com diversas obrigações perante organismos supranacionais e ainda não superou totalmente uma crise institucional interna, travada entre atores das forças armadas e autoridades civis, culminando na invasão e depredação das sedes dos três Poderes, em 8 de janeiro de 2023. É certo que o Brasil deve retornar como “player” ou ainda é muito cedo para se fazer tal prospecção de cenário?
PRA: A maior recessão da história econômica do país, em 2015-2016, deixou um enorme desafio para a recuperação do equilíbrio fiscal do país, assim como a demolição de muitas políticas setoriais durante a péssima gestão Bolsonaro, de 2019 a 2022, fragilizaram a capacidade do Brasil de atuar construtivamente em todas essas áreas, começando pelo fato de que ele tem enormes dívidas com os organismos multilaterais. O Brasil retomará como “player” em certas áreas – multilateralismo ambiental certamente –, mas terá dificuldades para recuperar um papel de líder em sua região, dadas as bases fracas de suas contas públicas. Por outro lado, a provável afirmação de uma “diplomacia presidencial” mais ativa também vai criar dificuldades para a diplomacia profissional, dada a impulsividade do presidente e seus equívocos de julgamento em determinadas questões (como a malograda ideia de um “clube da paz” para lidar com a guerra da Ucrânia, por exemplo). Lula tende a atuar mais em busca de maior promoção pessoal do que propriamente em função dos interesses permanentes do Brasil no cenário global. Trata-se de um método contraditório de atuação, pois que dependente de sua busca de prestígio internacional e mal orientado por certas obsessões do velho PT esquerdista, antiliberal e antiamericano.
O cenário interno ainda é difuso, inclusive por desconfianças recíprocas entre os militares e o atual governo, assim como dos temores dos chamados “mercados” em relação a uma política econômica populista – para atender à clientela tradicional do PT, os pobres, os sindicatos de trabalhadores, as minorias –, que poderia contaminar o equilíbrio das contas públicas nos próximos anos. O que parece certo é que a economia não terá o dinamismo necessário para crescer a taxas vigorosas, pois as grandes reformas (tributária, administrativa, política, previdenciária, indústria e comércio) ainda precisam ser feitas. Sem abertura econômica ou liberalização comercial dificilmente o Brasil realizará uma grande inserção na economia global.
Paulo Roberto de Almeida
Brasília, 4324: 17 fevereiro 2023, 7 p.
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